01/05/2020

Francesco, Vicario di Cristo? Sì, ma non troppo

Par l'abbé Jean-Marie Perrot

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Quando è stato pubblicato l’Annuario Pontificio del 2020, non ci si è interessati soltanto alle statistiche sul numero dei battezzati, dei sacerdoti, dei religiosi ecc. La redazione della pagina introduttiva dedicata al Papa ha attirato l’attenzione e suscitato una tale emozione che la Sala Stampa vaticana, in un articolo su Avvenire, il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, ha dovuto dare un’interpretazione autentica della nuova impaginazione.

« Titolo Storico », titolo « Storico »

Per comprendere la questione correttamente, occorre tornare indietro nel tempo. Fino all’Annuario 2012, la presentazione del Papa occupava una pagina ed era strutturata come segue: Benedetto XVI / Vescovo di Roma / Vicario di Cristo (in caratteri più grandi), poi l’elenco degli altri titoli e infine una breve biografia di Joseph Ratzinger. Appena eletto, Francesco ordinò una presentazione di due pagine: una pagina bianca su cui erano presenti solo le due righe con scritto: « Francesco / Vescovo di Roma », e nella pagina successiva gli altri titoli e la nota biografica. “Un modo di enfatizzare anche graficamente la particolare importanza da lui attribuita al titolo di « vescovo di Roma » rispetto agli altri associati alla figura del Pastore universale della Chiesa.” (Gianni Cardinale, « Papa Francesco, vescovo di Roma ma non solo », Avvenire, 2 aprile 2020).

Nell’edizione di quest’anno, è la seconda pagina dedicata al Papa che ha subito delle modifiche che sembrano andare nella stessa direzione. Non soltanto i due blocchi (titoli, biografia) risultano invertiti, con il nome di Jorge Mario Bergoglio in alto e i titoli in basso, ma – e questo è ciò che ha suscitato più domande e critiche, anche da parte del cardinale Müller – i titoli sono preceduti dalle parole « Titoli storici », con il primo, Vicario di Cristo, che ora appare con la stessa tipografia degli altri.

Nessuno dubita che questa modifica, così come la precedente, sia stata avallata da Francesco. Si è sottolineata l’umiltà del Papa “notoriamente allergico a ogni titolo onorifico” (Il Messagero, 3 aprile 2020). Più coerentemente, nell’articolo già citato di Avvenire, il direttore della Sala Stampa vaticana, intervistato, ha spiegato che l’espressione « titoli storici » rende conto del legame storico che i titoli in questione mantengono con quello di Vescovo di Roma: “nel momento in cui viene designato dal conclave alla guida della Chiesa di Roma l’eletto acquisisce i titoli collegati a questa nomina”. Pertanto, continua l’articolo, “i titoli tradizionali attribuiti al Pontefice non vengono « storicizzati » ma mantengono intatta la loro attualità. Altrimenti sarebbero stati cancellati”. Prosegue poi citando il caso del titolo di « Patriarca d’Occidente » che Benedetto XVI ha abbandonato nel 2006: oltre ad essere stato “sin dall’inizio poco chiaro”, era diventato “obsoleto”, secondo la nota del Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani pubblicata per segnalare la soppressione del titolo nell’Annuario pontificio di quell’anno.

Questa doppia modificazione apre almeno tre serie di considerazioni: relative alla personalizzazione e alla stessa soggettivizzazione delle funzioni ecclesiastiche, alla sua portata ecclesiologica, e infine alla scomparsa dei segni della sovranità della Chiesa.

La personalizzazione degli uffici ecclesiastici

è innegabile che ci sia una dimensione personale nel modo in cui il Papa intenda essere qualificato. Fin dal primo momento dell’attuale pontificato, l’umiltà del nuovo Papa è stata messa in evidenza, il che non esclude la sincerità, cosa sulla quale non possiamo giudicare. Questo ha comportato una rottura con le consuetudini del passato. Una « Chiesa povera per i poveri », ha annunciato il giorno dopo la sua elezione ai cardinali riuniti.

Così facendo, però, anche Jorge Mario Bergoglio, pur rompendo con certe pratiche e appassionando molti, si è di fatto associato ad una personificazione del pontificato iniziata prima di lui. A partire da Giovanni Paolo II, infatti l’immagine del Papa in cui erano esaltati i tratti personali, ha assunto un’importanza senza precedenti nella storia con la diffusione e l’amplificazione datale dai media: nei primi anni è stato l’atleta vigoroso che viaggiava per il mondo e invitava la gente a non avere paura; poi, è diventato il vecchio commovente nella sua malattia e nella sua perseveranza. La GMG, ma non solo la GMG (si pensi al suo ultimo pellegrinaggio a Lourdes), è stata una grande occasione per la diffusione di queste immagini. Quando Joseph Ratzinger gli è succeduto, il contrasto è stato impressionante: un’altra immagine, quella di un intellettuale adorno di abiti dimenticati da tutti tranne che dagli storici, gentile e riservato ma fermo. Dall’abbigliamento ai discorsi, dai movimenti alle liturgie, si poteva distinguere l’uno dall’altro. Cosa che facciamo oggi anche con Francesco per distinguerlo dai suoi predecessori.

Questo spazio crescente lasciato alle soggettività individuali, nel governo come nella pastorale, a parte la copertura mediatica che resta riservata a pochi, è una realtà abbastanza diffusa nella Chiesa, a volte foriera di tensioni e difficoltà. Perché, ad esempio, a un parroco viene chiesto di astenersi da modi di fare troppo particolari? Perché avrà un successore che si comporterà in modo diverso da lui: darsi del tu con i propri collaboratori, essere chiamato con il nome di battesimo, accettare celebrazioni religiose per seconde unioni civili, celebrare durante la settimana in una sala presbiteriale senza casula, invitare il pastore protestante amico a predicare la domenica, ecc. Quando il successore arriva e si comporta in modo più riservato guidato da oggettive norme disciplinari o liturgiche, immediatamente si abbattono su di lui le accuse di clericalismo e di rigidità: forse in parte anche a ragione, ma forse una parte di responsabilità è del predecessore che ha lasciato un’impronta troppo soggettiva. Il fatto che la personalità individuale colori l’esercizio di un ufficio è inevitabile e anche a volte utile; oggi perà la circostanza realmente da temere è che le norme oggettive, quelle del Messale Romano, del Codice di Diritto Canonico, e anche del Catechismo della Chiesa Cattolica, non sempre possano occupare la posizione basilare e strutturante che dovrebbe essere la loro.

Questo aspetto solleva poi la questione della formazione stessa dei sacerdoti: lo stile di vita piuttosto libero nei seminari, la diminuzione in caduta libera dei sacerdoti che porta ad una vita d’improvviso solitaria e molto attiva (non si è più in compagnia e sotto il controllo di un parroco per diversi anni) non aiutano la costruzione di personalità sacerdotali. Per fare questo, sarebbe anche necessario recuperare o riacquistare la verità contenuta nell’espressione « il sacerdote, un uomo separato », che si manifesta in una certa civiltà, in una certa pompa, in una certa spiritualità sacerdotale, in un abito ecclesiastico.

Torniamo al Papa e al suo modo di essere Papa, ma forse non a quello di « fare il Papa » come si dice in italiano. Potremmo reputare caricaturale e anche superficiale l’elenco dei « sette peccati di papa Francesco » che un articolo di un quotidiano francese (Le Parisien, 22 marzo 2020) ha redatto come amaro regalo di compleanno per i suoi sette anni di pontificato: incontrollabile, autoritario, distante, troppo ambizioso, radicale, arrabbiato, orgoglioso… Senza entrare nei singoli dettagli di questa descrizione, ci sono alcuni atti dell’attuale Papa che meritano di essere segnalati perché, a causa della oltraggiosa personalizzazione della funzione, ne hanno intaccato il compito primario: quello dell’insegnamento, attraverso il regolare e compiaciuto affidamento di riflessioni ai giornalisti, senza effettuare alcun controllo a posteriori sulle osservazioni riportate. Si pensi alle interviste rilasciate a Scalfari, così come alle estemporanee conferenze stampa in aereo, in effetti non così tanto casuali.

La prassi bergogliana ha inoltre cambiato profondamente la funzione papale di governo stessa, quando ha autorizzato e addirittura promosso la discussione su punti già risolti dal magistero, in aggiunta dando a queste discussioni un sigillo di autenticità nel dichiarare che si stavano svolgendo sub Petro et cum Petro. Per certi versi, il metodo di lavoro del Sinodo sulla famiglia è più preoccupante dei risultati, che non ne sono che la conseguenza.

Vicario di Cristo, un titolo che esprime pienamente il primato romano

La modifica dell’Annuario Pontificio solleva inoltre obiezioni teologiche ed ecclesiologiche. L’ufficio stampa vaticano, come già sottolineato, ha dato motivazioni storico-teologiche alle modifiche: si trattava di un riordino dei titoli papali, che metteva in evidenza, sotto al nome di papa Francesco, il titolo originale di vescovo di Roma, e rimandava gli altri, in un primo momento solo alla pagina successiva (forse non è insignificante il fatto che si tratti di un retro e non di un’altra pagina), e oggi anche sotto la dizione di « titoli storici ». Non per abrogarli, né per storicizzarli, si sosteneva inoltre. Questo punto, però, è sicuramente da confutare: la storicizzazione c’è, ed è evidente. Ciò che occorre è di valutarne la portata. Il processo non è nuovo e, a prima vista, sembra essere addirittura una questione di buon senso: è necessario collocare realtà e concetti nel loro contesto storico. Decenni di esegesi e teologia dimostrano però che la contestualizzazione spesso riguarda la relativizzazione, nel senso di accantonare alcune realtà e concetti a favore di altri. Un certo lavoro operato sull’interpretazione della Bibbia ha così portato all’affermazione ormai comune del carattere non storico di molte sue parti, a cominciare dalle storie contenute nel Pentateuco, ma anche di molti dei miracoli di Gesù e fino alla sua Risurrezione. A suo tempo, per fare un altro esempio, nell’enciclica Mysterium Fidei, Paolo VI dovette ricordare che la transustanziazione non era un concetto ormai obsoleto per l’Eucaristia, databile all’epoca scolastica o tridentina, e che quindi non poteva essere sostituito da altri come la transignificazione e transfinalizzazione. La storicizzazione può significare anche questo.

Sulla base di questo breve excursus, si può fare una prima osservazione: è legittimo disporre, come ha fatto Francesco, i titoli che lo riguardano su due pagine con la giustificazione che quelli della seconda pagina derivano da quelli della prima? Ci limiteremo qui a ricordare alcuni estratti della costituzione Pastor Aeternus del Concilio Vaticano I che ha stabilito la formulazione dogmatica del primato romano. L’elezione alla sede di Roma è certamente fondamentale: “Chiunque succede a Pietro in questa Cattedra, in forza dell’istituzione dello stesso Cristo, ottiene il Primato di Pietro su tutta la Chiesa”. Ma è solo il modo di trasmettere il primato, non il primato in sé, che invece è questo: “Proclamiamo quindi e dichiariamo che la Chiesa Romana, per disposizione del Signore, detiene il primato del potere ordinario su tutte le altre, e che questo potere di giurisdizione del Romano Pontefice, vero potere episcopale, è immediato”. Questo potere non è solo ricevuto da Cristo che lo ha istituito, ma è anche il potere di Cristo stesso trasmesso a Pietro e ai suoi successori. Così, quando la costituzione conciliare dà al Romano Pontefice i suoi titoli: “il successore del beato Pietro, Principe degli Apostoli, il vero Vicario di Cristo, il capo di tutta la Chiesa, il padre e il maestro di tutti i cristiani”, è proprio il titolo di “Vicario di Cristo” che è centrale perché contiene nel modo più completo il significato del primato romano. La scelta editoriale dell’Annuario Pontificio non sembra quindi avere alcuna base teologica: essa sottolinea al contrario una priorità nell’aspetto temporale, e in questo modo nasconde l’essenziale (cosa sia il primato) e inverte i rapporti (è per essere Vicario di Cristo, come voluto da Cristo stesso, che un uomo viene eletto Vescovo di Roma). L’antica presentazione manifestava chiaramente il primato scrivendo con caratteri più grandi « Vicario di Cristo », ma sottolineava anche le modalità stesse di questa trasmissione, facendo precedere questo titolo da quello di Vescovo di Roma.

A questo grave difetto teologico si aggiunge un problema ecclesiologico che si manifesta chiaramente se collochiamo questa distorsione nel quadro più generale delle parole di Francesco: la diffidenza e la critica acuta alla Curia, il desiderio di dare alle Conferenze episcopali una competenza dottrinale, il ritorno a un decentramento in materia liturgica (riconoscimento delle traduzioni liturgiche) concesso da Paolo VI e arginato da Giovanni Paolo II.

Alcuni studiosi e giornalisti sono andati oltre in questo percorso di interpretazione. Ad esempio, il giornalista Luigi Accattoli, il cui post « Vescovo di Roma, vicario di Gesù Cristo », corredato dai suoi commenti apparsi sul blog, è stato ripreso da quello della rivista Il Regno, fondata dai padri Dehoniani. Accattoli osserva che la decisione di Francesco è in sintonia con gli auspici della Commissione teologica internazionale del 1970, ripresa da Congar in un articolo di Concilium del 1975: evitare titoli che rischiano di essere fraintesi, come per esempio Capo della Chiesa, Vicario di Cristo, Sommo Pontefice; e ha raccomandato di usare invece: Papa Santo Padre, Vescovo di Roma, Successore di Pietro, Pastore supremo della Chiesa. Quando si conosce la grande influenza di padre Congar sul pensiero bergogliano, l’accostamento fatto sembra particolarmente opportuno. Luigi Accattoli prosegue dicendo che il motivo del rifiuto del titolo di « Vicario di Cristo » è che, alla luce della storia, il termine è appropriato ma appartiene ad ogni vescovo. Conclude: “Nell’uso del titolo di “vicario di Cristo” per il Papa si deve tener conto del fatto che esso in origine si applicava al Vescovo di Roma in quanto veniva dato a ogni vescovo: e in tal senso lo dovremmo intendere anche oggi, altrimenti esso dice troppo. Ed è per evitare di dire troppo che Francesco lo ha collocato tra i « titoli storici ».”

Da Paolo VI a Francesco, una continua depauperazione dei segni esteriori del Papato

Si può trarre un terzo insieme di considerazioni da questo recente episodio. Ancora una volta, Papa Francesco appare solo come il continuatore di un processo più antico, anche se abbastanza recente. Nella sua prima apparizione, la notte della sua elezione, Jorge Mario Bergoglio ha rivendicato solo il titolo di vescovo di Roma. In quell’occasione, a parte la tonaca bianca, non indossava nessuno degli abiti e degli ornamenti previsti: né la mozzetta rossa né la stola pastorale (che poi ha preso solo per la benedizione), esibendo la sua croce pettorale da vescovo e le sue semplici scarpe nere.

Da Paolo VI a Francesco, solo Benedetto XVI ha in qualche modo rallentato il continuo impoverimento dei segni esteriori del Papato: l’abbandono della tiara da parte di Paolo VI, l’eliminazione della cerimonia di incoronazione da parte di Giovanni Paolo I, la rinuncia alla sedia gestatoria di Giovanni Paolo II, l’abolizione dei camerieri pontifici da parte di Paolo VI e la sostituzione con i gentiluomini di Sua Santità il cui reclutamento è stato definitivamente interrotto dal maggio 2013. Se possiamo ricordare come papa Benedetto XVI abbia ripreso una certa finezza tradizionale, dobbiamo però dire che è stato lui a togliere la tiara dallo stemma papale, anche se se con una discreta e parziale riapparizione nel 2010, usato in alternanza con la mitra a tre bande orizzontali, mentre papa Francesco sembra aver fatto la scelta definitiva.

Ai segni esteriori, che potrebbero essere considerati obsoleti, ma di cui si può notare una logica nella graduale e sistematica scomparsa fatta esclusione per la sola tonaca bianca, si aggiunge l’abbandono degli specifici aspetti liturgici più basilari. Nella liturgia era assolutamente visibile ciò che distingueva il Papa da qualsiasi altro sacerdote o vescovo. Nello svolgimento della Messa papale era chiara la manifestazione della costituzione divina e gerarchica della Chiesa, la proclamazione di uno specifico ordo, una norma che irrigava tutta la liturgia della Chiesa: la Messa pontificale del vescovo nella sua cattedrale (derivata dalla Messa papale) era il riferimento, e le Messe solenni, cantate e basse, ne erano progressive riduzioni. Il nuovo ordo missæ, promulgato da Paolo VI, pretende ancora oggi di manifestare la realtà ecclesiologica, anche se sensibilmente diversa: la messa parrocchiale è oggi la forma normativa, quelle del Vescovo o del Papa ne sono solo una moderata amplificazione e non hanno più alcun significato o simbolismo proprio. O meglio, la Messa del Vescovo sarà tanto più episcopale quanto più importante sarà il numero dei concelebranti nel presbiterio e quanto più i fedeli parteciperanno attivamente con letture, processioni, canti, ecc.

Dal 1987 al 2007, il vescovo Piero Marini è stato il cerimoniere del Papa. Al termine di questi anni di servizio, nella sua lettera di ringraziamento, ha consegnato alcune riflessioni sul tema dell’“aggiornamento delle celebrazioni della liturgia papale”, e sull’accoglimento da parte di Papa Giovanni Paolo II e convinta approvazione delle “proposte di adattamento alle diverse culture nello spirito del Concilio Vaticano II”. Molto istruttivo. Ricordiamo inoltre il suo ricordo degli anni con Giovanni Paolo II in un articolo del 2011: “La partecipazione attiva tuttavia esige, di per sé, l’adattamento alla cultura locale. Di conseguenza, la partecipazione attiva è diventata soprattutto nelle varie comunità visitate dal Papa, in Africa, in Asia e in America Latina, adattamento della liturgia alle diverse culture”. L’universalità liturgica della Chiesa, manifestata attraverso le liturgie papali, vede il suo movimento subire un dietrofront: prima dal centro a tutta la cattolicità, oggi dalle periferie al centro, eventualmente con delle connotazioni morali associate ai due termini, positive per il primo, negative per il secondo.  

Don Jean-Marie Perrot