La necessaria scienza dei confessori
Quale formazione viene oggi data a coloro che vogliono assumersi questa terribile responsabilità? La nostra intenzione non è qui quella di scovare le carenze presenti, bensì quella di sottolineare l’importanza, in una prospettiva di ripresa ecclesiale, di questa formazione.
Si sa: nessuno può ascoltare una confessione, se non ha ricevuto prima il potere da parte dell’autorità competente (più comunemente il vescovo diocesano).
Tuttavia, nessuno riceveva questa facoltà, se prima non aveva superato con successo esami sul sacramento in questione e sulla morale. Ricordiamo, ad esempio, che san Padre Pio attese diversi anni prima di confessare, avendogli impedito i problemi di salute di presentarsi ai suddetti esami. La formazione – iniziale, ma anche permanente – al sacramento comprendeva i cosiddetti «casi di morale», circostanze tipiche, rappresentative dei penitenti e dei peccati che il (futuro) confessore sarebbe stato o sarebbe spinto ad ascoltare.
Padre, medico e giudice
L’incontro tra un sacerdote ed un penitente nel sacramento della penitenza è un evento a cui la Chiesa riconosce un’importanza del tutto particolare: ne incoraggia generosamente la celebrazione e ne protegge solennemente il contenuto.
Ne favorisce la celebrazione, dispensando abbastanza facilmente il suo ministro dalla maggior parte degli elementi esteriori (a cominciare dal luogo), cosicché si moltiplichino le circostanze in cui ci si possa accostare al sacramento, soprattutto affinché non manchi l’occasione di ricondurre un’anima allo stato di grazia – benché, bisogna ricordarsene, è altamente conveniente che in questo come in ogni altro sacramento e nel culto in generale, la dignità dell’azione di Cristo venga ordinariamente manifestata con «nobile semplicità», per riprendere l’espressione con cui il concilio Vaticano II ha qualificato la liturgia latina. Solo in situazioni di pericolo di morte si autorizza una simile libertà per il battesimo e per l’estrema unzione e quindi anche per la confessione. Ciò, in quanto anche per la confessione potenzialmente si tratta di questione di vita o di morte.
Allo stesso tempo, il sacramento viene circondato dal segreto, da cui nessuno può essere esentato e che dev’essere accollato dal ministro a qualunque costo.
L’importanza cruciale di questo sacramento viene quindi affermata nella Chiesa. Lo è ancora o lo era – si esita a coniugare certi verbi al presente – tramite disposizioni per il sacerdote, sulle quali noi vogliamo insistere ulteriormente.
Poiché essi non hanno, per lo più, carismi straordinari di prescienza o di discernimento, i preti confessori devono adottare l’approccio umile che lo stesso Padre Pio riconosceva di dover seguire nella direzione spirituale: «Non so come dirigere le anime, che il Signore mi ha affidato e mi affiderà. Per alcune, ci sarebbe davvero bisogno di luce sovrannaturale e non so se l’ho o meno, e a volte sono tentato di lasciarmi un po’ guidare dalla pallida e fredda dottrina appresa nei libri». E quale dottrina seguiva? Quella degli autori più affidabili: Giovanni della Croce, Francesco di Sales, Alfonso de’ Liguori, per citarne solo tre.
I manuali classici sulla confessione affermavano la stessa esigenza, la stessa responsabilità, umile e coscienziosa, attorno alle tre qualifiche del sacerdote in questo sacramento: egli è padre, medico giudice (cfr. ancora Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1465). Anche dando il primato – e tutti i manuali lo fanno – alla paternità, un sacerdote non saprebbe accontentarsi di «due o tre idee pie», come ha ricordato recentemente un oratore parlando ai sacerdoti, non solamente nella confessione, ma anche in ogni altro discorso, a cominciare dall’omelia domenicale. Quale padre, inoltre, in determinate circostanze, si contenterebbe di idee vaghe, qualora si accorgesse di una deriva in certa misura grave nel comportamento di suo figlio o quando lo stesso figlio gli ponesse delle domande spigolose? Chi si limiterebbe al proprio buonsenso?
Nell’esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et pœnitentia del 1984, dopo quasi due decenni di abbandono del sacramento della penitenza, Giovanni Paolo II ha posto le basi per un rinnovamento, insistendo – quale primo elemento della grandezza del sacramento – sulla dignità del ministro, configurato a Cristo dall’ordinazione. Da questa dignità scaturisce un’esigenza di santità e di competenza per il sacerdote: «Questo ministero del sacerdote è, senza dubbio, il più difficile e delicato, il più faticoso ed esigente, ma anche uno dei più belli e più consolanti (…) Per l’efficace adempimento di tale ministero, il confessore deve necessariamente possedere qualità umane di prudenza, discrezione, discernimento, fermezza temperata da mansuetudine e bontà. Egli deve avere altresì una seria preparazione, non frammentaria ma integrale e coerente nelle diverse branche della teologia, nei campi della pedagogia e della psicologia, della metodologia del dialogo e, soprattutto, in materia di conoscenza profonda e comunicativa della Parola di Dio. Ma ancora più necessario è che il confessore sia animato da una vita spirituale intensa e genuina. Per condurre altri sulla via della perfezione cristiana, il ministro della Penitenza deve percorrere egli stesso, per primo, questa via e, più con gli atti che con abbondanti discorsi, dar prove di reale esperienza nell’orazione vissuta, di pratica delle virtù evangeliche teologali e morali, di fedele obbedienza alla volontà di Dio, di amore alla Chiesa e di docilità al suo Magistero.
Tutto questo insieme di qualità umane, di virtù cristiane e di competenze pastorali non si improvvisa e non si acquista senza sforzo. Per il ministero della Penitenza sacramentale, ogni sacerdote deve essere preparato già dagli anni del seminario, non solamente per lo studio della teologia dogmatica, morale, spirituale e pastorale (ciò che costituisce sempre una sola teologia), ma anche con le scienze dell’uomo, la metodologia del dialogo e, specialmente, del colloquio pastorale. Egli dovrà poi essere avviato e sostenuto nelle sue prime esperienze. Lui stesso dovrà sempre curare il proprio perfezionamento, l’aggiornamento della propria formazione con lo studio permanente» (n. 29).
Ai tempi della dittatura del relativismo
Nella confessione, questa esigenza di santità e di conoscenza – ciò fa sì che il confessore come ministro del sacramento sia anche un confessore nel senso della professione di fede – appare oggi più che mai cruciale, perché «di fronte», per così dire, al penitente che si rivolge a lui, l’ignoranza delle basi della vita cristiane o l’esser impregnati dalle idee del mondo possono aver gravemente indebolito verità e punti di riferimento, criteri e risorse.
Rivolgendosi ai partecipanti al corso annuale sul foro interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, Benedetto XVI ha dichiarato nel marzo 2010, vale a dire nel corso dell’Anno sacerdotale: «Viviamo in un contesto culturale segnato da una mentalità edonista e relativista, che tende a cancellare Dio dall’orizzonte della vita, non favorisce l’acquisizione di un quadro chiaro di valori di riferimento e non aiuta a discernere il bene dal male ed a sviluppare un giusto senso del peccato. Questa situazione rende ancora più urgente il servizio di coloro che amministrano la Misericordia divina. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che c’è una sorta di circolo vizioso tra l’oscuramento dell’esperienza di Dio e la perdita del senso del peccato (…) La “crisi” del Sacramento della Penitenza, di cui si parla spesso, interpella soprattutto i sacerdoti e la loro grande responsabilità di educare il popolo di Dio alle esigenze radicali del Vangelo».
Per finire, torniamo a Padre Pio: è parso opportuno, qualche anno fa, alla provincia dei cappuccini di Foggia, che fu quella di Padre Pio, pubblicare in un volume le sessioni comunitarie sui «casi morali», in cui, dal 1920 al 1951, è attestata la sua presenza. La conclusione dell’opera definisce Padre Pio «magisterialis et pastoralis theologus», un teologo, la cui conoscenza lo rendeva degno tanto dell’insegnamento quanto della cura pastorale delle anime. Non solo, i doni carismatici straordinari ch’egli ricevette non spiegano totalmente il suo ministero nel confessionale; ma, più ancora, egli fu attento ed esigente, per tutta la vita, nell’approfondire la conoscenza teologica che i suoi studi ed il periodo di confino forzato (per malattia o per colpa di sanzioni, che gli avevano proibito qualsiasi attività pastorale) gli avevano permesso di acquisire.
Don Jean-Marie Perrot