Sulla tentazione di strumentalizzare la Sacra Scrittura
Pio XII, nel Divino afflante Spiritu del 1943, ammoniva i commentatori della Sacra Scrittura di ricordarsi «che si tratta della parola da Dio ispirata, della quale da Dio stesso fu affidata alla Chiesa la custodia e l’interpretazione, [cosicché essi] con non minore diligenza [tengano] conto delle spiegazioni e dichiarazioni del Magistero ecclesiastico, come pure delle esposizioni dei Santi Padri ed anche della “analogia della fede”, secondo che Leone XIII nell’enciclica Providentissimus Deus con somma sapienza avvertì». Ciò, a proposito del senso letterale della Scrittura, del suo significato teologico diretto. E più avanti, egli ha chiesto loro di non allontanarsi, soprattutto nella predicazione, dal significato spirituale (simbolico) voluto da Dio e consacrato dai Padri. «Può ben essere utile, specialmente nella predicazione, lumeggiare e raccomandare le cose della fede e della morale cristiana con uso più largo del Sacro Testo in senso figurato, purché si faccia con moderazione e sobrietà», però restando «estrinseco ed avventizio».
Riportiamo qui di seguito due esempi recenti di libera interpretazione – problematica – della Sacra Scrittura: la prima interpretazione riguarda il significato spirituale, la seconda il significato letterale.
L’assolutizzazione della diversità
Nell’udienza generale di mercoledì 29 novembre 2023[1], papa Francesco ha ricordato l’episodio della torre di Babele in Genesi 11, 1-9, torre che, nel loro orgoglio, gli uomini vollero costruire fino al cielo e che venne punita da Dio col confondere le lingue.
«Viene in mente il racconto della città di Babele e della sua torre (cfr. Gen 11, 1-9). In esso si narra di un progetto sociale, che prevede di sacrificare ogni individualità all’efficienza della collettività. L’umanità parla una lingua sola – potremmo dire che ha un “pensiero unico” -, è come avvolta in una specie di incantesimo generale, che assorbe l’unicità di ciascuno in una bolla di uniformità. Allora Dio confonde le lingue, cioè ristabilisce le differenze, ricrea le condizioni perché possano svilupparsi delle unicità, rianima il molteplice dove l’ideologia vorrebbe imporre l’unico. Il Signore distoglie l’umanità anche dal suo delirio di onnipotenza: «facciamoci un nome», dicono esaltati gli abitanti di Babele (v. 4), che vogliono arrivare fino al cielo, mettersi al posto di Dio. Ma sono ambizioni pericolose, alienanti, distruttive e il Signore, confondendo queste aspettative, protegge gli uomini, prevenendo un disastro annunciato. Sembra davvero attuale questo racconto: anche oggi la coesione, anziché sulla fraternità e sulla pace, si fonda spesso sull’ambizione, sui nazionalismi, sull’omologazione, su strutture tecnico-economiche, che inculcano la persuasione che Dio sia insignificante e inutile: non tanto perché si ricerca un di più di sapere, ma soprattutto per un di più di potere. È una tentazione che pervade le grandi sfide della cultura odierna».
Ci si rende conto dello slittamento: non è tanto l’orgogliosa costruzione della torre ad essere peccaminosa quanto l’unità del linguaggio, che diviene metafora del «pensiero unico», denunciando, del resto, quest’ultimo molto giustamente. Per cui ciò che l’interpretazione tradizionale considerava come una punizione – Dio fa passare l’umanità dalla fusione delle lingue alla loro confusione per punirla della sua superbia – è in realtà, secondo papa Francesco, il ripristino della creazione e della volontà di diversità iscritta in essa.
La diversità può certo esprimere umanamente nelle creature finite l’infinita ricchezza della divinità nella sua unicità – ciò che peraltro il papa evoca, dicendo che la diversità ricrea «le condizioni affinché l’unicità possa svilupparsi» –, ma spesso è anche una deviazione peccaminosa dettata dall’orgoglio rispetto ai canali dell’unità divina, della retta ragione o della Rivelazione.
Non si può non pensare al «Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune» d’Abu Dhabi del 4 febbraio 2018, che fa derivare dalla Sapienza divina la diversità, compresa quella delle false religioni, il libero esame e la libertà religiosa: «La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi». Il discorso tenuto nell’udienza del 29 novembre scorso non si è spinto fin qua, così lontano, ma, come questo, si pone sulla stessa linea di sacralizzazione della diversità.
La «conversione» di Cristo dalla rigidità alla misericordia
Anche Padre Antonio Spadaro, ex-direttore de La Civiltà Cattolica, Sottosegretario del Dicastero per la Cultura, si è lasciato andare su Il Fatto quotidiano del 20 agosto 2023[2] ad un sorprendente commento circa l’episodio della donna cananea, che chiede aiuto a Gesù, perché sua figlia è tormentata dal demonio, e che viene trattata con apparente durezza, ma alla fine esaudita per la sua fede, che Cristo stava mettendo alla prova (Matteo 15, 21-28).
«Gesù è a Genesaret, sulla riva destra del lago di Tiberiade. La gente del luogo lo aveva riconosciuto e la notizia della sua presenza si era diffusa per tutta la regione, di bocca in bocca. Molti gli portavano malati, che venivano guariti. Era una terra, dove la gente doveva accoglierlo e capirlo. Le sue azioni erano efficaci. Ma il Maestro non si ferma. Matteo (15, 21-28) – che scrive per i Giudei – ci dice che se ne va verso nord-ovest, la zona di Tiro e Sidone, cioè in zona fenicia e dunque pagana.
Ma ecco si sentono urla. Sono di una donna. È Cananea, cioè di quella regione abitata da un popolo idolatrico, che Israele guardava con disprezzo ed inimicizia. La storia pretendeva che Gesù e la donna fossero nemici. La donna urla: “Abbi pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio. […]”. Ma lui non le rivolse nemmeno una parola”, scrive laconicamente Matteo.
Gesù resta indifferente. […] Al silenzio segue la risposta stizzita ed insensibile di Gesù: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”. La durezza del Maestro è inscalfibile. Ora addirittura Gesù fa il teologo: la missione ricevuta da Dio si limita ai figli d’Israele. Dunque, niente da fare. La misericordia non è per lei. È esclusa. Non si discute. [… Gesù] risponde in maniera beffarda e irriguardosa nei confronti di quella povera donna: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”, cioè ai cani domestici. Una caduta di tono, di stile, di umanità. Gesù appare come fosse accecato dal nazionalismo e dal rigorismo teologico.
[…] “È vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Poche parole, ma ben poste e tali da sconvolgere la rigidità di Gesù, da conformarlo, da “convertirlo” a sé. Gesù, infatti, senza esitare, risponde: “Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri”. E da quell’istante sua figlia fu guarita. E anche Gesù appare guarito e alla fine si mostra libero, dalla rigidità degli elementi teologici, politici e culturali dominanti del suo tempo. Dunque, che cosa è accaduto? Gesù, fuori dalla terra di Israele, ha guarito la figlia di una donna pagana, disprezzata per essere cananea. Non solo: le dà ragione e ne loda la grande fede. Qui c’è il seme di una rivoluzione».
Certo, Padre Spadaro dice – sostenendo che, nel passaggio dalla rigidità alla misericordia, Gesù si sia convertito «a sé stesso» – ch’egli «appare» guarito dalla sua durezza. Ma, ai fini della lezione che vuole dare ai suoi lettori, sottolinea la «conversione» di Cristo ed, allo stesso tempo, stronca la «rigidità» dei teologi. Certamente, Padre Spadaro dice che Cristo alla fine si mostra libero, e non liberato, dalla rigidità. Ma, se per gli uomini convertirsi significa ritrarsi dal peccato, nella fattispecie dal disprezzo, dalla durezza malvagia, allora il cambio nell’atteggiamento di Cristo non può essere che una manifestazione pedagogica del disegno divino nella missione verso Israele e poi verso i pagani, nonché della perfezione della sua misericordia (che si manifesta del resto nella sua iniziale severità).
Antonio Spadaro ricama sul racconto evangelico, come fanno talvolta in modo pio i predicatori, ma lui lo fa, attribuendo a Cristo un «modo di fare canzonatorio ed irrispettoso nei confronti di questa povera donna», giungendo a supporre ch’egli sia «come accecato dal nazionalismo e dal rigorismo teologico». Al punto che la sua chiosa, comunque gravemente irrispettosa, dipende da una cristologia sospetta: il Gesù del Vangelo sarebbe moralmente perfettibile. Per Spadaro era già Dio o non ancora?
Don Pio Pace
[1] https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2023/documents/20231129-udienza-generale.html.
[2] Il testo completo dell’articolo è riportato in: MiL – Messainlatino.it: Le bestemmie ereticali di padre Antonio Spadaro S.I. sul Fatto Quotidiano