01/09/2021

Il Vaticano II e il Calvario della Chiesa

Par P. Serafino M. Lanzetta

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Si è riacceso di recente il dibattito sulla corretta interpretazione del Concilio Vaticano II[1]. È vero che ogni concilio porta con sé problemi interpretativi e molto spesso ne apre di nuovi anziché risolvere quelli prefissatisi. Il mistero porta sempre con sé una tensione tra il detto e l’indicibile. Basti rammentare che il problema della consustanzialità del Figlio con il Padre del Concilio di Nicea (325) contro Ario fu stabilita in modo inconcusso solo sessant’anni dopo con il I Concilio di Costantinopoli (385), quando fu definita anche la divinità dello Spirito Santo. Venendo a noi, dopo circa sessant’anni dal Concilio Vaticano II abbiamo non la chiarificazione di qualche dottrina di fede ma un ulteriore obnubilamento. La Dichiarazione di Abu Dhabi (4 febbraio 2019) stabilisce con tutta sicurezza che Dio vuole la pluralità delle religioni come vuole la diversità di colore, di sesso, di razza e di lingua. Al dire di Papa Francesco, sul volo di ritorno dopo la firma del documento, «dal punto di vista cattolico il documento non è andato di un millimetro oltre il Concilio Vaticano II». Certo si tratta più di un legame simbolico con lo spirito del Concilio che echeggia nel testo della Dichiarazione sulla Fratellanza Umana. Eppure un legame c’è e non è certamente l’unico con l’oggi ecclesiale. Segno che tra il Concilio di Nicea a il Vaticano II c’è una differenza che bisogna tener in considerazione.

Questo strano concilio, che bisogna sempre interpretare

L’ermeneutica della continuità e della riforma ci ha dato la speranza di poter leggere le dottrine nuove del Vaticano II in continuità con il magistero precedente in nome del principio secondo cui, un concilio, se celebrato con i dovuti crismi canonici, è assistito dallo Spirito Santo. E se l’ortodossia non la si vede la si ricerca. Intanto però già qui si pone un problema non secondario. Affidarsi all’ermeneutica per risolvere il problema della continuità è già un problema in se stesso. In claris non fit interpretatio, recita un noto adagio, per cui se la continuità non dovesse essere dimostrata con l’interpretazione non ci sarebbe bisogno dell’ermeneutica come tale. La continuità non è evidente, ma va dimostrata o piuttosto interpretata. Dal momento che si fa ricorso all’ermeneutica, ci si immette in un processo crescente di interpretazione della continuità, un processo coinvolgente che non si arresta. Finché ci saranno degli interpreti ci sarà anche il processo interpretativo e ci sarà la possibilità che tale interpretazione sia avvalorata o smentita perché adeguata o pregiudiziale agli occhi dell’interprete successivo.

L’ermeneutica è un processo, è il processo della modernità che pone l’uomo come esistente e lo coglie nel raggio dell’esserci qui ed ora. Eco di ciò è il problema del Concilio che prova a dialogare con la modernità che a sua volta è un processo esistenziale non facilmente risolvibile nei circoli ermeneutici. Se ci si affida solo all’ermeneutica per risolvere il problema della continuità si rischia di avvilupparsi in un sistema che pone la continuità come esistente (o da parte opposta la rottura), ma di fatto non la raggiunge. E non sembra che l’abbiamo raggiunta tutt’oggi, a quasi sessant’anni dal Vaticano II. C’è bisogno non di un’ermeneutica che ci dia la garanzia della continuità, ma di un principio primo che ci dica se l’ermeneutica utilizzata è valida o meno: la fede della Chiesa. Non meraviglia che a tanta distanza dal Vaticano II stiamo ancora disputando sull’ermeneutica della continuità di un concilio rispetto ai precedenti e rispetto alla fede della Chiesa, quando la stessa fede ci ha lasciato da molti anni a questa parte e non accenna per ora a ritornare.

L’ermeneutica della continuità lasciò avvertire qualche scricchiolio sin dall’inizio; più di recente sembra che lo stesso Joseph Ratzinger se ne sia alquanto distanziato. Infatti negli appunti di costui relativi alle radici degli abusi sessuali nella Chiesa (pubblicati in esclusiva per l’Italia dal Corriere della Sera, l’11 aprile 2019), si chiama in causa ripetute volte il Concilio Vaticano II. Con più libertà teologica e non in veste ufficiale, Benedetto XVI addita in una sorta di biblicismo promanante da Dei Verbum la radice dottrinale principale della crisi morale della Chiesa. Nella lotta ingaggiata al Concilio, si provò a liberarsi del fondamento naturale della morale per fondare quest’ultima esclusivamente sulla Bibbia. L’impianto della Costituzione sulla Divina Rivelazione – che non volle far cenno al ruolo della Traditio constitutiva, seppur imperato da Paolo VI – si rifletté nel dettato di Optatam totius 16, che di fatto venne poi declinato con il sospetto nei confronti di una morale presto definita “preconciliare”, spregiativamente identificata come manualistica perché giusnaturalista. Gli effetti negativi di tale riposizionamento non tardarono a farsi sentire e sono ancora sotto i nostri occhi attoniti. Nei medesimi appunti di Ratzinger si legge anche una denuncia della cosiddetta “conciliarità” ertasi come discrimen di ciò che era veramente accettabile e proponibile, fino a portare alcuni vescovi a rifiutare la tradizione cattolica. Nei vari documenti post-conciliari che hanno cercato di correggere il tiro, dando la giusta interpretazione della dottrina, non si è mai preso in seria considerazione questo problema teologico-fondamentale inaugurato dalla “conciliarità”, che difatti apre a tutti gli altri problemi e soprattutto diventa uno spirito libero che si aggira e che sporge sempre rispetto al testo e soprattutto rispetto alla Chiesa. Se ne parlò durante il Sinodo dei Vescovi del 1985, ma non si è mai concretizzato in una chiara presa di distanza.

Dottrine nuove, ma « pastorali »

Il problema ermeneutico del Vaticano II è destinato a non finire se non affrontiamo un punto centrale e radicale da cui dipende la chiara comprensione delle dottrine e la loro valutazione magisteriale. Il Vaticano II si pone come concilio con un fine squisitamente pastorale. Tutti i concili precedenti sono stati pastorali nella misura in cui hanno affermato la verità della fede e hanno combattuto gli errori. Il Vaticano II per un fine pastorale sceglie un metodo nuovo, il metodo appunto pastorale che diventa un vero programma d’azione. Dichiarandolo a più riprese, ma senza mai dare una definizione di cosa intendesse per “pastorale”, il Vaticano II si pone così in modo nuovo rispetto agli altri concili. È il concilio pastorale che più di ogni altro ha proposto nuove dottrine, ma avendo scelto di non definire nuovi dogmi, né di reiterare in modo definitivo alcunché (forse la sacramentalità dell’Episcopato, ma non c’è unanimità). La pastoralità prevedeva un’assenza di condanne e una non definizione della fede, ma solo un modo nuovo di insegnarla per il tempo di oggi. Un modo nuovo che influì sulla formazione di dottrine nuove e viceversa. Un problema che avvertiamo con tutta la sua virulenza oggi, quando si preferisce lasciare la dottrina da parte per motivi pastorali, senza però poter fare a meno di insegnare un’altra dottrina.

Il metodo pastorale (si trattò di metodo) svolge un ruolo di prim’ordine in Concilio. Dirige l’agenda conciliare. Stabilisce ciò che è da essere discusso e di rifare alcuni schemi centrali perché poco pastorali; di tralasciare dottrine comuni (come ad esempio il limbo e l’insufficienza materiale delle Scritture, reiterata dal magistero ordinario dei catechismi) perché ancora disputate e di abbracciare e di insegnare dottrine nuovissime che non godevano di nessuna disputa teologica (come ad esempio la collegialità episcopale e la restaurazione del diaconato permanente uxorato). Addirittura la pastorale viene ad assurgere al rango di costituzione con Gaudium et spes (si era abituati a una costituzione che fosse tale in relazione alla fede), un documento così malmesso da far rizzare i capelli anche a K. Rahner, il quale consiglierà al Card. Döpfner di far dichiarare al testo fin dall’inizio la sua imperfezione. Ciò soprattutto per il fatto che l’ordine creato non appariva finalizzato a Dio. Eppure Rahner era il promotore di una pastorale trascendentale.

Così il Concilio poneva il problema di se stesso, della sua interpretazione, e ciò non a partire dalla fase ricettiva, ma sin dalle discussioni in aula conciliare. Capire il grado di qualificazione teologica delle dottrine conciliari fu impresa non facile agli stessi Padri che ripetutamente ne fecero richiesta alla Segreteria del Concilio. La pastoralità poi entra anche nella redazione del nuovo schema sulla Chiesa. Per molti Padri il mistero della Chiesa (aspetto invisibile) era più ampio del suo manifestarsi storico e gerarchico (aspetto visibile), e ciò fino al punto di ritenere una non co-estensività del Corpo mistico di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana. Due Chiese giustapposte? Una Chiesa di Cristo da un lato e la Chiesa Cattolica dall’altro? Questo rischio derivò non dal cambio verbale con il “subsistit in”, ma fondamentalmente dall’aver rinunciato alla dottrina dei membri della Chiesa (si passò dal de membris al de populo) per non offendere i protestanti, membri imperfetti. Oggi sembra che tutti più o meno appartengono alla Chiesa. Se formulassimo una domanda: «I Padri ritengono che il Corpo mistico di Cristo è la Chiesa Cattolica?», molti cosa risponderebbero? Diversi Padri conciliari risposero di no, per questo siamo dove siamo.    

Lo spirito del Concilio, regola relativa di una misura assoluta

Lo spirito del Concilio nasce dunque nel Concilio. Si libra per mezzo del Vaticano II e dei suo testi; è riflesso spesso di un spirito pastorale non chiaramente identificabile, che costruisce o demolisce in nome della conciliarità, cioè spesso del sentire teologico del momento che aveva più presa perché più forte la voce di chi parlava, non tanto attraverso i media, ma in aula e in Commissione dottrinale. Un’ermeneutica che non appura ciò finisce col prestare il fianco a un problema che si aggira tutt’oggi irrisolto: il Vaticano II come assoluto della fede, come identità del cristiano, come passe-partout nella Chiesa “post-conciliare”. La Chiesa è divisa perché dipende dal Concilio e non viceversa. Questo può generare poi un altro problema.

Prima il concilio come assoluto della fede e poi il papa come assoluto della Chiesa difatti sono due facce della stessa medaglia, dello stesso problema di assolutizzare ora l’uno ora l’altro, ma dimenticando che prima c’è la Chiesa, poi il papa con il suo magistero pontificio e poi un concilio con il suo magistero conciliare. Il problema di questi giorni di un papa visto come un assoluto nasce quale eco del concilio come ab-solutus e ciò per il fatto che uno spirito del concilio, cioè l’evento superiore ai testi e soprattutto al contesto, viene enfatizzato come criterio di misura chiave. È un caso che chi cerca di blindare il magistero di Francesco faccia continuo appello al Vaticano II, vedendo le ragioni delle critiche in un rifiuto del Vaticano II? Sta di fatto però che tra Francesco e il Vaticano II c’è piuttosto un legame simbolico e quasi mai testuale. I papi del Concilio e del post-concilio sono santi (o lo saranno presto) mentre la Chiesa langue, piombata in un silente deserto.

P. Serafino M. Lanzetta


[1] Questo intervento è stato è pubblicato originariamente on-line, sul blog del vaticanista Aldo Maria Valli, Duc in Altum, il 13 luglio 2020.