Il cardinale Parolin in agguato
È il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, il vero candidato della sinistra bergogliana[1]? Va ricordato che nel 2013, i cardinali, che si autodesignarono con l’appellativo di «Gruppo di San Gallo» e che portarono al potere Jorge Bergoglio, si servirono di uno stratagemma ovvero avanzare il nome del cardinal Scherer, arcivescovo di São Paulo, per far in realtà progredire più efficacemente il loro vero candidato al Pontificato, l’arcivescovo di Buenos Aires. Allo stesso modo oggi, dietro il cardinal Tagle, filippino, 66 anni, prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, ma depresso e piuttosto irrilevante, o ancora dietro il cardinal Hollerich, 65 anni, gesuita, arcivescovo di Lussemburgo, relatore al Sinodo dei Vescovi per una Chiesa sinodale, ma troppo vistosamente eterodosso, ci sarebbe in realtà il cardinale Parolin.
L’erede del cardinal Silvestrini
Ordinato nel 1980 nella diocesi di Vicenza, in Veneto, è entrato a far parte dal 1986 dei servizi diplomatici della Santa Sede, quando il cardinale Casaroli era Segretario di Stato, Achille Silvestrini, Segretario per i rapporti con gli Stati (equivalente ad un ministro degli Affari Esteri), e leader per decenni della Roma liberale. Gran lavoratore, Pietro Parolin ha acquisito di colpo, sotto la direzione del suo mentore Silvestrini, una profonda conoscenza, al contempo, della Curia ai massimi livelli e delle cancellerie di tutto il mondo. Ha prestato servizio in diverse nunziature, poi è tornato a Roma nel 1992, quando il cardinal Sodano è divenuto Segretario di Stato. È stato nominato Sottosegretario per i rapporti con gli Stati sotto Jean-Louis Tauran, ch’era succeduto al suo capo Silvestrini, e si è segnalato per la propria abilità in negoziati delicati (Messico, Vietnam). Ma il cardinal Bertone, divenuto Segretario di Stato di Benedetto XVI, lo ha fatto cadere in disgrazia e rimpiazzato con uno dei suoi fedeli, Ettore Balestrero. È stato inviato nella più difficile delle nunziature, quella del Venezuela di Hugo Chavez. È stato, del resto, un prelato venezuelano molto discusso, mons. Edgar Peña Parra, divenuto alquanto vicino al papa, ad essere il suo primo collaboratore come Sostituto per gli Affari Generali nel 2018, al posto di Giovanni Becciu, fatto cardinale e Prefetto per le Cause dei Santi.
Si dice che l’abile attitudine mostrata da Pietro Parolin a Caracas, di fronte a Hugo Chavez, sia stata molto apprezzata dal cardinal Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. Divenuto Papa, si è lasciato facilmente convincere dai cardinali Silvestrini e Tauran a chiamare, nell’agosto 2013, questo diplomatico di provata esperienza e di sensibilità liberale, per sostituire colui che l’aveva esiliato, il cardinal Bertone. L’esperienza maturata da Parolin in America Latina sembrava preziosa al Papa, la cui bestia nera – peronismo oblige – erano gli Stati Uniti e la loro Chiesa largamente conservatrice. Atroce è risultata per il papa e per il suo Segretario di Stato l’elezione di Trump nel 2016 ed ancor più pazzesca l’elezione recente del Trump argentino, Javier Milei, cui è capitato di trattare Francesco come un «demone».
Perché, se l’elezione di Jorge Bergoglio al sommo pontificato sembrava inaugurare un nuova era, di fatto essa rappresentava il ritorno di un mondo vecchio dopo un periodo di «restaurazione» wojtylo-ratzingeriana. Pietro Parolin, figlio spirituale del cardinal Silvestrini, ammiratore dell’Ostpolitik del cardinale Casaroli, era l’uomo adatto per questo ritorno alle idee del passato.
La spina nella carne di Parolin: l’accordo con la Cina
Il grosso handicap di Parolin sta appunto nel disastroso accordo stretto dalla Santa Sede con la Cina. Molto più professionale del suo predecessore Bertone, Parolin ha tuttavia stupito il mondo per l’irenismo dell’accordo ch’egli ha sottoscritto con la Repubblica popolare di Cina il 22 settembre 2018 ed i cui termini sono segreti.
Bisogna dire che la situazione del cattolicesimo cinese è estremamente complessa: v’è una feroce contrapposizione tra l’eroica Chiesa clandestina e la Chiesa controllata dal potere; ma, all’interno di quest’ultima, i confini sono spesso sfumati. Già sotto Giovanni Paolo II, benché nominato dall’Associazione patriottica, un certo numero di vescovi chiese in segreto a Roma di venire riconosciuto.
Papa Francesco e il cardinale Parolin hanno dunque organizzato negoziati diretti con Pechino, condotti da parte romana da mons. Celli. Inoltre, si è ricorsi ai servigi del cardinal McCarrick, ex-arcivescovo di Washington, castigato da Benedetto XVI per i suoi crimini come predatore sessuale. Questi si è già recato a più riprese in Cina ed ha avuto mandato di riprendere le sue visite presso i cattolici «ufficiali». Tutto questo non ha impedito per niente le persecuzioni contro i cristiani cattolici e protestanti, in particolare attraverso la distruzione di chiese, promossa su larga scala.
L’accordo Parolin del 2018, firmato per due anni e prorogato tanto nel 2020 quanto nel 2022, ha concesso alle autorità cinesi di «presentare» i vescovi, che Roma è chiamata a nominare. In virtù di questo accordo sono stati reintegrati nella comunione con Roma anche i sette ultimi vescovi «ufficiali» nominati, di cui si è scoperto che due erano sposati. Inoltre, i vescovi clandestini, non approvati dalle autorità comuniste, sono stati esclusi dal governo delle diocesi. Ciò ha provocato critiche scandalizzate, in particolare quella del cardinale Zen, che ha accusato Pietro Parolin, «uomo di poca fede», di «svendere la Chiesa cattolica al governo comunista», ma anche, molto recentemente, quella del cardinale Müller: «Non si possono fare patti col diavolo»[2]. Perché, su questo bisogna insistere, il patto in questione accorda a dei comunisti, da sempre persecutori della Chiesa, il diritto di nominare i vescovi.
Pietro Parolin ha peraltro ammesso nel luglio scorso che questa politica stava portando la Santa Sede ad ingoiare enormi rospi: «per il bene della diocesi e del dialogo» Roma aveva riconosciuto la nomina unilaterale da parte dell’Associazione patriottica, contrariamente agli accordi precedenti, di Joseph Shen Bin al vertice della diocesi di Shangai[3]. In realtà, questo modo di fare – annuncio da parte delle autorità ecclesiali cinesi della nomina e della consacrazione di un vescovo, avallata da Roma e pubblicata dalla Sala Stampa vaticana – è il processo abituale.
Il cardinale Zen ha fatto notare come il Segretario di Stato avesse citato una frase della Lettera di Benedetto XVI alla Chiesa di Cina del 27 maggio 2007, che diceva: «La soluzione dei problemi esistenti non può essere ricercata in un conflitto permanente con le autorità civili legittime». Parolin, sin troppo felice che papa Ratzinger avesse riconosciuto la legittimità delle autorità comuniste, ha troncato però il resto della frase: «Tuttavia non è accettabile cedere alle volontà delle autorità civili, quando intervengano indebitamente nelle questioni inerenti la fede e la disciplina della Chiesa». Così il cardinale Zen ha invitato il responsabile di questo «incredibile tradimento» a dimettersi.
Il cardinale mondialista
È stata alquanto criticata la partecipazione del numero due della Chiesa alla riunione di un club, i cui scopi sono del tutto estranei alla sua dottrina sociale: si è trattato della conferenza annuale, a porte chiuse, del gruppo Bilderberg, svoltasi a Torino dal 7 al 10 giugno 2018 ed al cui ordine del giorno v’era l’analisi della «preoccupante» ascesa dei populismi. Tale gruppo è stato fondato nel 1954 da David Rochefeller ed oggi si considera un efficace intermediario delle ideologie mondialiste. I suoi membri ed invitati – grosso modo un centinaio di persone – vengono cooptati tra le personalità più influenti della diplomazia, degli affari, della politica, dei media, di cui un buon numero neppure nasconde la propria affiliazione «umanista». La totale segretezza dei dibattiti – i partecipanti vengono rinchiusi per due giorni come in un conclave – ha sollevato ogni sorta di fantasmi. Ma, secondo la Sala Stampa, il Segretario di Stato vaticano non sarebbe stato presente «che per un breve lasso di tempo – circa un’ora e tre quarti», nel corso dei quali avrebbe pronunciato un discorso «sulla dottrina sociale della Chiesa». In una parola, Parolin l’élite capitalo-mondialista…
Sempre lungo questa linea di apertura ai temi cari ai mondialisti, ma sempre con la medesima prudenza, Parolin è stato ricevuto il 5 aprile 2019, per più di un’ora, da militanti LGBT di alto profilo ovvero una cinquantina di avvocati, magistrati, politici, tutti militanti a favore della depenalizzazione dell’omosessualità. Il personaggio-chiave di questa delegazione è stato il professore emerito di criminologia a Buenos Aires, Raúl Zaffaroni, amico di lunga data di Jorge Bergoglio, noto per le sue posizioni ultraliberali e per il suo impegno a favore del riconoscimento legale dei «matrimoni» omosessuali e per la decriminalizzazione dell’aborto. Il Segretario di Stato aveva affermato che la Chiesa condannava «qualsiasi forma di violenza contro le persone», ciò che impegnava poco, pur compiendo allo stesso tempo un gesto di grande potenza simbolica. È meno grossolano tuttavia del ricevimento a pranzo di un gruppo di donne transgender da parte del papa, pur essendo altrettanto significativo in termini di «apertura». Tutto questo è Parolin.
Una relazione complessa con papa Francesco
Pietro Parolin è stato membro del gruppo di cardinali, che ha lavorato alla riforma della Curia, riforma richiesta per ridurre l’importanza della Segreteria di Stato. Tutto si è ridotto all’aspetto finanziario. Pietro Parolin ha abilmente manovrato per ostacolare l’efficace riorganizzazione, iniziata dal cardinale Pell, degli organi finanziari della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano. In teoria, la riforma Pell ha eliminato una parte importante del controllo esercitato dalla Segreteria di Stato. In realtà, Pietro Parolin ha fatto sì da escludere la Segreteria di Stato dalla revisione dei conti organizzata per l’insieme degli enti finanziari del Vaticano, ciò che ha silurato il riesame predisposto da Pell.
In conseguenza di tutto ciò, il cardinale Parolin è stato direttamente toccato dall’emergere, nel 2019, di una transazione sospetta effettuata dalla Segreteria di Stato nel 2012: l’investimento di quasi 200 milioni di euro in un lussuoso immobile londinese gravato da ipoteca. Questo era stato acquistato ad un prezzo alquanto sovrastimato tramite i fondi raccolti dall’Obolo di san Pietro, poi rivenduto in forte perdita. Si è trattato di una situazione relativamente classica, in cui degli ecclesiastici, che si ritenevano esperti finanziari, si sono rivelati invece estremamente ingenui. La responsabilità maggiore rimandava al primo collaboratore di Pietro Parolin, Angelo Becciu, divenuto nel frattempo Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi. Questi ha dovuto dimettersi dall’incarico, ha perso tutti i diritti relativi al cardinalato ed è stato deferito davanti alla giustizia vaticana assieme ad altri alti funzionari romani, lo svizzero René Brülhart, ex-presidente dell’Autorità d’informazione finanziaria (AIF), il finanziere della Santa Sede, mons. Carlino, a lungo segretario particolare di Angelo Becciu, e mons. Crasso, ex-gestore del patrimonio riservato alla Segreteria di Stato. I loro avvocati non esitarono a dichiarare che Parolin fosse al corrente delle loro attività.
Parolin è pertanto caduto in semi-disgrazia? Queste accuse di malversazione o di gravi imprudenze han fatto sì che, alla fine del 2020, la Segreteria di Stato venisse spogliata dei suoi beni e del suo enorme portafoglio d’investimenti. Tuttavia, qualunque fosse l’implicazione del cardinale Parolin, questa faccenda è talmente complessa, in sé stessa e nella modalità del tutto atipica – bergogliana –, con cui è stata portata avanti dal papa in persona, ch’essa non rappresenta un reale pericolo per le possibilità del cardinale Segretario di Stato all’apertura del conclave.
Del resto, malgrado la partecipazione dello staff diplomatico di Parolin alle discussioni internazionali sulle questioni climatiche, egli è stato escluso dal processo di redazione dell’esortazione pontificia Laudate Deum. Inoltre, è il cardinal Zuppi, membro della potente Comunità Sant’Egidio, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ad esser stato incaricato di porre in opera gli sforzi del papa per ottenere un accordo di pace tra l’Ucraina e la Russia. Così, il cardinale di Bologna, che in passato ha già assunto importanti missioni diplomatiche, viene considerato come una sorta di secondo Segretario di Stato.
Ma l’esser meno vicino al papa potrebbe rappresentare un vantaggio per Pietro Parolin, nel momento in cui occorrerà provvedere alla successione a Francesco e quando si produrrà necessariamente una reazione contro il dispotismo sotto cui hanno gemuto Curia e cardinali.
In questo tipo di speculazioni, il suo stato di salute incerto – Parolin è stato curato di un cancro – compenserebbe la sua «giovane» età (69 anni) per gli elettori che, dopo l’interminabile pontificato di Giovanni Paolo II, intendono limitare i rischi, cercando candidati al papato per regni brevi (il cardinale Ricard aveva rivelato che l’età del cardinale Bergoglio era uno degli argomenti, addotti dai suoi sostenitori, durante il conclave del 2013).
Un ritorno al Concilio «puro»: Amoris lætitia e Traditionis custodes
Quel che veniamo a sapere di più sull’ecclesiologia parolina è il discorso – che ha pronunciato il 14 novembre 2017 a Washington presso la Catholic University of America, dove ha ricevuto un dottorato honoris causa in teologia. Vi ha tenuto una lunga lezione magistrale di 55 minuti in italiano in onore del Vaticano II, lezione che aveva tutte le caratteristiche di un manifesto ed in cui si poneva con insistenza sulle orme di Papa Francesco, colui che avrebbe realizzato pienamente le intenzioni del Concilio[4].
Per Pietro Parolin il Concilio Vaticano II è fons et origo della Chiesa di oggi e di quella del futuro. I Padri vi hanno adottato un paradigma nuovo, quello di una Chiesa, che è rimasta sempre cattolica, ma che è divenuta mondiale, svincolata dal fatto di coincidere con la sola Europa. Da qui derivano diverse conseguenze come l’introduzione di lingue locali nella liturgia e la legittimazione delle teologie locali. L’aggettivo mondiale attribuito alla Chiesa viene usato con un’ambiguità simile a quella dell’aggettivo ecumenico per qualificare il Concilio Vaticano II, concilio ecumenico in quanto generale e/o per aver fatto trionfare il riavvicinamento con i separati.
Pietro Parolin ha citato mons. Doré, per il quale dopo il Vaticano II niente sarebbe stato più come prima. Così come in origine la Chiesa era passata, secondo lui, dal giudeo-cristianesimo al pagano-cristianesimo, essa è mutata, dopo il Vaticano II, in modo altrettanto radicale. Un processo «irreversibile», ha scandito il cardinale, che ha sottolineato come, tra le profonde novità del Vaticano II, poste in luce da Papa Francesco, vi sia stata l’introduzione della sinodalità, che «riequilibra» l’organizzazione monarchica preconciliare.
Ma, a parte l’aspetto «comunicativo» della sinodalità, per lui l’essenziale del presente pontificato si trova nell’armonizzazione realizzata con Amoris lætitia. Esisteva una contraddizione: il Vaticano II aveva adottato un’ecclesiologia liberale (ecumenismo, libertà religiosa), ma Paolo VI, con Humanæ vitæ, aveva conservato una morale coniugale all’antica. Amoris lætitia ha cancellato questo iato, impegnando anche la stessa morale in un’apertura liberale. Si noterà che Pietro Parolin ha sacralizzato quest’apertura facendo inserire il 7 giugno 2017 negli Acta Apostolicæ Sedis, sotto il titolo di «magistero autentico», l’elogio rivolto dal Papa ai vescovi argentini per la loro interpretazione ultraliberale di Amoris lætitia…
Questa difesa della nuova lex credendi nella sua pienezza si manifesta, come dovrebbe essere, con una difesa della nuova lex orandi, la liturgia riformata in seguito al Concilio. Il cardinale Parolin ha giocato un ruolo-chiave, come Segretario di Stato, nell’elaborazione di Traditionis custodes. Ci si ricorderà come il primo atto fosse consistito nell’inchiesta organizzata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede in data 7 marzo 2020 tra i vescovi di tutto il mondo, per stilare un bilancio dell’applicazione del Summorum Pontificum. I risultati potevano certo essere interpretati come un’approvazione del Summorum Pontificum, ma ad esser programmata era stata la sua abrogazione. Durante le assemblee della Congregazione, che ne discussero, intervennero personaggi assai ostili all’usus antiquior, come il cardinale Stella, Prefetto della Congregazione per il Clero, il virulentissimo cardinale Ouellet, Prefetto della Congregazione per i Vescovi, il cardinale Versaldi, Prefetto della Congregazione per l’Educazione cattolica (responsabile dei seminari) e il cardinale Parolin, che, in una di queste riunioni, avrebbe espressamente detto, giocando sul termine «messa di sempre», che si attribuisce talvolta alla messa tridentina: «Noi dobbiamo por fine a questa messa per sempre!».
Un opportuno riposizionamento al centro
Una grandissima discrezione è stata imposta ai membri dell’assemblea d’ottobre del Sinodo sulla sinodalità e questa è stata sorprendentemente rispettata. Si sa così che il cardinale Parolin ha fatto un intervento descritto come «molto forte» e «molto franco», tale da impressionare profondamente l’assemblea, ma senza che ne sia stato divulgato il contenuto. Vi avrebbe «difeso la dottrina», che dev’essere stata posta al centro della sinodalità. Andrea Gagliarducci ironizzava su Il Foglio del 20 ottobre: «È tuttavia poco probabile che Parolin abbia parlato come un guerriero». Sembra verosimile ch’egli abbia tenuto un discorso di ricentramento, in armonia col pensiero di Francesco, che ci tiene a prendere le distanze dal Cammino sinodale tedesco. Si può pertanto concepire la pesante macchina sinodale romana come un processo di compromesso tra Roma e la Chiesa tedesca o piuttosto tra i bergogliani «esagerati» (Hollerich), vicini alla Germania, ed i bergogliani «realisti» (Parolin), questi ultimi espressione del pensiero del Sovrano Pontefice.
Inoltre, questo discorso si è rivelato essere una preparazione delle anime alla pubblicazione di una lettera indirizzata il 23 ottobre dal Segretario di Stato alla signorina Beate Gilles, segretaria generale dei vescovi tedeschi, in cui ricordava come la dottrina della Chiesa riservi l’ordinazione sacerdotale agli uomini e come, senza giudicare la responsabilità soggettiva degli interessati, la moralità oggettiva delle relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso sia stata «valutata […] in modo preciso e certo».
Gli interventi pubblici del Segretario di Stato dovrebbero ormai ripetersi in senso «conservatore» ed, in caso di malattia grave del papa o di vacanza della Sede, potrebbe certamente divenire un personaggio di primo piano, com’è capitato al cardinale Ratzinger nel 2005.
In fondo, Parolin offre la versione istituzionale del bergoglionismo, quella di un’apertura ampia il più possibile senza porre troppo l’istituzione in pericolo. Iacopo Scaramuzzi su La Repubblica del 25 ottobre ha classificato i cardinali importanti, compresi i papabili, in cinque gruppi. Tralasciando gli outsiders, venuti da Paesi lontani e spesso indefinibili, restano quattro gruppi ben definiti:
- I bergogliani di ferro, i bergogliani più «avanzati» (Luis Tagle, Jean-Claude Hollerich).
- I bergogliani dell’«asse istituzionale», più realisti, in cui si colloca Pietro Parolin (con Marc Ouellet, Arthur Roche). Bisognerebbe, a nostro avviso, aggiungervi il cardinale Becciu, i cui favori restano importanti e che non è né più né meno «a sinistra» di Parolin.
- I cardinali, che si potrebbero qualificare come liberali di centrosinistra (Scaramuzzi li definisce «mediterranei»), quali Matteo Zuppi di Bologna, Jean-Marc Aveline di Marsiglia;
- Ed i conservatori (Peter Erdö di Budapest, Robert Sarah, Gerhard Müller, Raymond Burke, Willem Ejik l’olandese, Timothy Dolan l’americano).
Se la pesata dei voti si facesse oggi, dove si fermerebbe l’ago della bilancia? Nessuno potrebbe dirlo. Ma dopo l’autoritarismo bulldozer dell’attuale pontificato, il meticoloso professionismo di Parolin potrebbe essere considerato accettabile per le coorti di cardinali in cerca di un candidato al pontificato aperto, tuttavia tale da presentare, a loro giudizio, il minimo rischio. Vale a dire col massimo rischio per la Chiesa.
Don Claude Barthe
[1] Abbiamo riutilizzato in questo articolo una parte delle considerazioni fatte da Daniel Hamiche in un articolo di Res Novæ del primo maggio 2019, «”L’hypothèse” Parolin» [«”L’ipotesi” Parolin»].
[2] Cardinal Gerhard Müller, In buona fede. La religione nel XXI secolo, Solferino, 2023.
[3] Parolin: il Papa nomina il vescovo di Shanghai per il bene della diocesi e il dialogo – Vatican News.