26/02/2020

In che direzione va la Chiesa?

Par l'abbé Claude Barthe

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La pubblicazione del libro Dal profondo dei nostri cuori di papa Benedetto XVI e del cardinale Sarah, e l’intensa polemica che ne è immediatamente seguita, hanno portato improvvisamente alla luce la particolarità dell’attuale situazione della Chiesa. Al suo vertice vediamo un papa in carica accanto ad un papa emerito, che vive a poche centinaia di metri dal primo, e che ha appena preso una posizione diversa, per non dire opposta, su un problema istituzionale della massima importanza: la disciplina del celibato sacerdotale nella Chiesa latina. È vero che papa Francesco non si è ancora pronunciato espressamente a favore dell’apertura di una breccia sulla questione del celibato, ma nessuno dubita che il voto dell’ultima assemblea del Sinodo, che si propone di poter conferire l’ordinazione sacerdotale ai diaconi sposati in un contesto di scarsità sacerdotale (quello dell’Amazzonia per il momento), esprima il suo pensiero. 

Il problema, infatti, non è tanto quello che possa sembrare che a capo della Chiesa ci siano due Papi, quanto piuttosto che nessuno dei due sia in grado di risolvere la questione.

Nel nostro libro Quel chemin pour l’Église ? pubblicato da Hora Decima nel settembre 2004, circa sei mesi prima dell’elezione di Benedetto XVI, abbiamo dedicato un capitolo a immaginare cosa sarebbe potuto accadere dopo la fine del pontificato di Giovanni Paolo II, un capitolo intitolato: « Ultimo papa » o papa di transizione?. 

La prima ipotesi, che chiamiamo quella dell' »ultimo papa », esaminava la possibilità di eleggere un uomo appartenente alla tendenza più liberale della Chiesa, nella linea del cardinale Martini, per una progressione significativa dello « spirito del Concilio » e un maggiore allineamento della Chiesa alle democrazie moderne. In quell’occasione scrivevamo che sarebbe stato un passo avanti del Vaticano II nel senso di un’evoluzione istituzionale. La promozione della « collegialità » e del « decentramento » (si parlava ancora poco di « sinodalità ») avrebbe permesso l’adozione di un dibattito consensuale ai vertici e il governo della Chiesa da parte di gruppi di pressione allineati. 

L’altra ipotesi era quella di un “papa di transizione”. Scrivevamo che nel caso dell’elezione di un Restauratore, si sarebbe potuti passare dall’ipotesi dell' »ultimo papa », ovverosia dall’idea di un’uscita piuttosto rapida dalla struttura tradizionale del papato, a quella, simmetricamente opposta, di un papa di transizione, cioè di un’uscita graduale dal papato postconciliare. In quel momento ingenuamente non immaginavamo che l’elezione di un papa di tendenza ratzinghiana, e nemmeno quella dello stesso Joseph Ratzinger, avrebbe portato automaticamente a un processo di « uscita dal Concilio”, pensavamo che un tale evento potesse porre le condizioni per l’inizio di una spinta verso l’uscita, soprattutto alla luce delle sempre più marcate opposizioni dottrinali, che sono come la miccia accesa di un possibile scisma.

Avevamo doppiamente ragione. E due volte torto. In realtà, le due ipotesi si sono avverate successivamente, la seconda nel 2005, la prima nel 2013, ma in entrambi i casi, non nella forma incisiva che abbiamo descritto, ma in quella forma morbida, propria del nostro tempo caratterizzato da un cattolicesimo assai poco virile. 

Per papa Ratzinger, l’atto più significativo in un senso di transizione verso un’uscita dall’era conciliare è stato il motu proprio Summorum Pontificum che, come i suoi detrattori hanno ben visto, ha avuto l’effetto di restituire piena legittimità alla liturgia pre-Vaticano II come lex orandi, in concorrenza con la lex orandi dell’era post-Vaticano II. Ma per il resto, dobbiamo riconoscerlo, abbiamo piuttosto assistito a un non governo della Chiesa e della Curia. 

Per quanto riguarda la gestione molto più energica di papa Bergoglio, sembra che non riesca ad andare oltre l’apertura morale operata dalle assemblee del Sinodo sulla Famiglia, e l’apertura istituzionale preparata dall’assemblea del Sinodo sull’Amazzonia. L’entourage del Pontefice non fa mistero del fatto che ritiene che Papa Francesco non stia facendo altro che gettare le basi per un futuro pontificato realmente riformatore. 

In altre parole, nel 2020 siamo allo stesso punto del 2005. Salvo che i due possibili esperimenti sono stati (ma solo in parte) provati, ed entrambi sono falliti dal punto di vista dei frutti che ci si dovrebbe aspettare da una riforma ecclesiastica, se si considera che la Chiesa di Pietro è ancora nello stesso stato, e ancor più grave da quindici anni a questa parte, durante i quali, almeno in Occidente, le chiese hanno continuato a svuotarsi, il credo dei sacerdoti e dei fedeli a cercare altri obiettivi e il numero delle vocazioni a crollare. 

Non sono però stati risolti i problemi direttamente dottrinali e i problemi istituzionali  legati alla dottrina. Al contrario, la successione di questi due pontificati, e ora il loro tipo di relazione con  la questione sollevata dall’uscita di Dal profondo dei nostri cuor, fa sì che l’insegnamento post-conciliare mostri più che mai l’intrinseca debolezza del suo carattere pastorale, un insegnamento mai del tutto normativo, dove il definitivo è in ultimo solo provvisorio. In questo modo la Familiaris consortio di Giovanni Paolo II è controbilanciato da Amoris lætitia; la Sacerdotalis cælibatus di Paolo VI risulta sfumata dall’assemblea del Sinodo sull’Amazzonia.

Questo proseguirà fino  al momento in cui l’espressione della fede, tanto per i vescovi quanto per il Papa, si conformerà nuovamente al “chi ascolta voi ascolta me” (Luca 10,16). Il Papa, a cui Cristo ha promesso che non fallirà fino a quando « confermerà i suoi fratelli ». Proprio per questo è Papa: per confermare i suoi fratelli.