01/03/2021

La critica al Consiglio gode di ottima salute

Par l'abbé Claude Barthe

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«Il Concilio è il Magistero della Chiesa. O tu stai con la Chiesa e pertanto segui il Concilio, e se tu non segui il Concilio o l’interpreti a modo tuo, come lo desideri, tu non stai con la Chiesa». Questa dichiarazione di papa Francesco è stata fatta durante l’udienza del 30 gennaio 2021 ai membri dell’Ufficio Catechistico della Conferenza episcopale italiana, che celebrava il suo 60mo anniversario.

I riferimenti di papa Bergoglio al Vaticano II sono rari[1]: lui non deve affatto provare di essere conciliare, si dice scherzosamente, poiché è l’incarnazione vivente del Concilio e del suo spirito. È il risultato del Concilio. Ma, tutto considerato, non ha inventato lui la sottomissione al Vaticano II. Ci si deve, in effetti, ricordare della dichiarazione richiesta a (e firmata da) mons. Lefebvre, poi dai fondatori degli istituti tradizionali «ufficiali»: «Noi dichiariamo di accettare gli insegnamenti del Magistero della Chiesa in materia di fede e di morale, compresi quelli del Concilio Vaticano II». È vero che questa dichiarazione soggiungeva: «dando ad ogni affermazione dottrinale il grado di adesione richiesto», il che consentiva qualsiasi restrizione di coscienza si volesse.

Ma chi è questa gente cattiva, che parla male del Vaticano II?

Nell’intervista che ha rilasciato, all’inizio del suo pontificato, a diverse riviste gesuitiche, nell’agosto 2013, papa Francesco dichiarava con forza: «Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento, che viene semplicemente dallo stesso Vangelo. I frutti sono considerevoli. È sufficiente richiamare la liturgia. Il lavoro di riforma liturgica fu un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Ci sono certamente delle linee ermeneutiche di continuità o discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: il modo in cui si legge il Vangelo attualizzandolo, che fu proprio del Concilio, è assolutamente irreversibile». L’allusione alle «linee ermeneutiche di continuità o di discontinuità» era rivolta a quanti si rifugiassero con Benedetto XVI dietro la fragile barriera dell’«ermeneutica di rinnovamento nella continuità» (discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005).

Ma chi viene preso di mira con la dichiarazione dello scorso 30 gennaio, che abbiamo citato all’inizio? Il papa si rivolse quel giorno ad un organismo della Conferenza episcopale italiana. Ora, una potente lobby progressista di prelati italiani è alquanto più attiva oggi che il pontificato volge al termine e che questo gruppo intende cementare le posizioni acquisite. Il suo accesso ai posti-chiave della Curia nelle ultime nomine lo dimostra. Tanto sulla liturgia conciliare quanto sulla dottrina conciliare, Francesco, in merito, viene costantemente messo in guardia dal suo entourage: «Attenzione! I fautori della Messa antica e delle critiche al Concilio sono in agguato!».

Paranoia di progressisti, cui piace spaventarsi, anche quando il pericolo sia divenuto per loro assai debole? In effetti, hanno forse buone ragioni per temere ancora il virus della critica al Concilio, più che mai contagioso. Poiché, per seguire la metafora epidemiologica, il virus in questione è mutato ed è più virulento che mai. Sotto il pontificato di Benedetto XVI, molti si sono aggrappati alla sua «ermeneutica del rinnovamento nella continuità», essa stessa assoggettata all’ermeneutica che più conviene a ciascuno. Ne è risultata una corporazione tipo «unione delle destre», tra quelle classiche e quelle tradizionali, corporazione che le aveva alquanto riavvicinate, soprattutto in Italia. Gli osservatori come Sandro Magister avevano all’epoca evidenziato (e lui lo aveva d’altronde notato per sé medesimo) come il motu proprio Summorum Pontificum le spingesse a compiere un cammino assieme. Il famoso «arricchimento reciproco», che ha de facto giocato a favore della forma «extraordinaria» rendendola comune, s’è concretizzato anche dal punto di vista teorico: la critica del Concilio, essa stessa, ha acquisito diritto di cittadinanza.

Nel 2013 è giunto lo choc delle dimissioni di Benedetto e dell’elezione di Francesco, che ha contribuito a far risalire la riflessione dagli effetti – il bergoglismo – alle cause – il Vaticano II. In altre parole, un buon numero di ratzingeriani sono passati dalla critica a papa Francesco alla critica al Vaticano II: l’evoluzione di mons. Carlo Maria Viganò lo mostra in modo speciale. Inoltre, il trauma del 2013 ha contribuito a sottolineare la continuità tra tutti i Papi del Vaticano II: la dichiarazione di Abu Dhabi, firmata da papa Francesco, mostra un’evidente affinità con le giornate succedutesi ad Assisi, presiedute da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI; ed in principio, quanto accaduto ad Assisi come quanto accaduto ad Abu Dhabi, non avrebbe potuto aver luogo senza il «rispetto», che Nostra ætate accorda alle religioni non cristiane.

Come stupirsi allora se il blog ratzingeriano del vaticanista Sandro Magister, originariamente vicino al card. Ruini, ha dedicato ampio spazio al dibattito sul Concilio Vaticano II, così come quelli di Marco Tosatti e di Aldo Maria Valli?

Un libro-evento: L’altro Vaticano II di Aldo Maria Valli

Si dà il caso che quest’ultimo avesse appena pubblicato, una quindicina di giorni prima dell’intervento sopra citato del Papa, un libro dedicato alla critica del Concilio[2]. Si può dire che fosse in particolare a questo testo, che infastidiva il suo entourage, che il pontefice pensasse durante il suo discorso? Perché Valli non è una figura marginale. Giornalista specializzato nelle questioni religiose, ha lavorato o lavora per riviste come Studi Cattolici, Il Regno, per la televisione (Tg3 nazionale, Tg1, vale a dire i telegiornali del principale canale televisivo pubblico italiano Rai1).

Il suo testo riunisce autori tra loro relativamente diversi, ma che formulano tutti grosse riserve in merito all’ultimo concilio: Enrico Radaelli, che è in breve il prosecutore del pensiero di Romano Amerio; Éric Sammons; Padre Serafino Lanzetta, che insegna presso la facoltà cattolica di Lugano; mons. Guido Pozzo, ex-presidente della Commissione Ecclesia Dei; il card. Zen; Padre Alberto Strumia; mons. Schneider; Giovanni Formicola, che scrive in particolare su Cultura & Identità; mons. Viganò; Roberto de Mattei di Corrispondenza Romana; Padre Giovanni Cavalcoli, domenicano.

Padre Cavalcoli qui spiega, ad esempio, come i risultati pastorali del Concilio possano essere discussi, ma le sue dottrine debbano essere accolte. Al contrario, Éric Sammons reputa di dover contestare con forza questo Concilio in quanto tale, benché un tempo lo avesse difeso. Padre Strumia riconosce come il Vaticano II abbia numerosi difetti, ma senza farne un capro espiatorio. Mons. Pozzo si concentra sull’ermeneutica del rinnovamento nella continuità, alla quale Padre Lanzetta non crede, richiamando il principio: in claris non fit interpretatio. «Affidarsi – scrive – all’ermeneutica per risolvere il problema della continuità è in sé un problema» (pag. 17). E mons. Viganò insiste dicendo che il ricorso all’ermeneutica, «cosa che non è mai stata necessaria per nessun altro concilio», considera l’eterogeneità del Vaticano II in relazione ai concili precedenti.

Un tema forte tra gli interventi riguarda logicamente il carattere «pastorale» del Vaticano II. «La pastoralità prevedeva un’assenza di condanna ed una non-definizione della fede, secondo un modo d’insegnare nuovo per i nostri tempi. Questo modo nuovo ha influenzato la dottrina e viceversa. Noi percepiamo il problema nella sua pienezza oggi, in un tempo in cui si preferisce lasciar da parte la dottrina per motivi eminentemente pastorali, senza tuttavia poter fare a meno d’insegnare un’altra dottrina» (S. Lanzetta, pag. 19).

Ma come uscire da questa situazione? Il card. Brandmüller aveva suggerito di «storicizzare» il Vaticano II e di superarlo senza colpo ferire, evitandone una correzione magisteriale diretta: ad esempio, la dichiarazione Nostra ætate, che viene ridotta ad una presa di posizione storica dalla pubblicazione dell’Istruzione Dominus Jesus. Ciò non risolve veramente la difficoltà, in quanto Nostra ætate resta un riferimento in quanto tale. Quanto a mons. Viganò, questi propone di rigettare magisterialmente l’intero corpus conciliare, in quanto le parti difettose influenzano il tutto. Tra i due si pone mons. Schneider, che immagina possibile la correzione magisteriale delle espressioni e delle dottrine ambigue, ciò che permetterebbe di conservare gli insegnamenti fondati su quanto sia incontestabilmente tradizionale.

Questo dibattito potrebbe essere tacciato come insignificante col pretesto d’aver luogo tra persone considerate marginali. Ma è necessario resistere a tale giudizio, poiché in un contesto ideologico, come quello della Chiesa dopo il Vaticano II, qualsiasi voce discordante viene immediatamente bollata come marginale. Giudizio ch’essa stessa può aggravare con goffaggini di comunicazione e d’espressione (si pensi alla critica pur fondata di mons. Lefebvre contro la nuova messa, considerata tuttavia con disprezzo col pretesto ch’egli definisse il Novus Ordo la «messa di Lutero»).

D’altronde, occorre ben notare come qualsiasi critica relativa a punti discutibili o erronei del Vaticano II non possa che sfociare necessariamente in riflessioni relative all’«uscita» da questa situazione. Per questo, invece di ritenere insignificanti tali discussioni sull’«uscita» dal Concilio, poiché tenute da prelati che non dispongono di alcun potere per trasformarle con processi operativi, bisogna piuttosto valutare come essi contribuiscano ad accrescere la critica del Concilio all’interno di un cattolicesimo, che continuerà a nutrirsi dell’esasperazione delle tensioni di fine pontificato. In modo tale che, se la critica del Vaticano II, ai tempi dell’apparente rinnovamento wojtyliano, poteva sembrare trascurabile (si basava timidamente sul riformismo ovattato di Rapporto sulla fede), ora fa ormai espressamente parte del panorama nel tempo del «non importa cosa» bergogliano.

Don Claude Barthe


[1] «Tra Francesco ed il Vaticano II, c’è piuttosto un legame simbolico, quasi mai testuale» (Serafino Lanzetta in L’altro Vaticano II. Voci su un Concilio che non vuole finire, Chorabooks, Hong Kong, gennaio 2021, pag. 21).
[2] Op. cit.