La riforma della riforma, un processo per pensare al futuro
Le dimissioni del Card. Sarah dal suo incarico di Prefetto della Congregazione per il Culto Divino, lo scorso mese, sono state senza dubbio, per molti, l’occasione per rivedere rapidamente in cuor loro i frutti degli sforzi da lui compiuti in questi anni. E senza dubbio, ad un buon numero di costoro, una forma di delusione è sopraggiunta a tinteggiare i ricordi emersi nella memoria: il tentativo abortito di reintrodurre su larga scala la celebrazione orientata della messa è forse l’esempio più eclatante. Qualunque sia il bilancio, le dimissioni del cardinale (ed ancor più l’identità del suo successore) possono essere lette come l’ultimo atto di una serie, di cui le dimissioni di Benedetto XVI sono state il momento principale, serie che invita, quando non costringe, ad una doppia constatazione:
– la riforma della riforma della liturgia è un’opera, i cui risultati sono fragili;
– non verrà dall’alto, come la riforma liturgica intrapresa dal concilio Vaticano II e soprattutto da papa Paolo VI.
Un processo di ri-tradizionalizzazione della liturgia fragile
Ma, prima di tutto, che cos’è la riforma della riforma? L’espressione riveste due prospettive parallele, che si incontrano su molti punti (come la modalità della comunione eucaristica o l’uso del latino), ma che non concordano circa le cause della situazione attuale, né sul fine cui tendere. Per alcuni, pertanto, la riforma liturgica è stata deviata rispetto alle sue intenzioni, sia da abusi pratici ed alquanto diffusi, sia per l’infelice introduzione di elementi (il moltiplicarsi di preghiere eucaristiche, ad esempio, oppure, più recentemente, l’apertura alle donne dei ministeri di lettore e accolito), che non rimettono sostanzialmente in discussione la riforma. Per altri, è la riforma stessa ad aver causato questa situazione ed i riti della messa e del battesimo ne sono gli elementi più sintomatici.
Non sembra che vi sia stato un programma di riforma dei libri liturgici di Paolo VI e si comprende bene, alla luce del breve richiamo fatto sopra, che la riforma della riforma è di natura pratica. Ciò che induce ad avanzare con prudenza e fiducia che, qualunque siano i disaccordi tra le due prospettive (riforma liturgica applicata nello spirito della tradizione; riforma liturgica corretta nello spirito della tradizione), esse possano agire di concerto, eventualmente aiutandosi a vicenda, innanzi tutto senza criticarsi duramente, in un lavoro comune di consolidamento e di diffusione delle buone pratiche, nonché di comprensione della fede e della devozione, che ad esse sottendono.
Questa riforma della riforma ha avuto la propria buona occasione a livello universale sotto il pontificato di Benedetto XVI ed è possibile richiamarne alcuni tratti peculiari: la distribuzione della comunione sulla lingua, il cui esempio è stato dato dallo stesso Sommo Pontefice; la raccomandazione, in occasione di raduni internazionali, che la messa venga in gran parte celebrata in lingua latina (esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis, 22 febbraio 2007, n. 62); la liberalizzazione, col motu proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007), di quella che diveniva la forma extraordinaria del rito romano e l’invito ad un reciproco arricchimento delle due forme liturgiche. Ciò che confermava la visione della riforma della riforma: un invito ad arricchire la forma meno ricca[1].
I risultati sono fragili, come da noi annunciato, ed effettivamente è «bastata» la rinuncia di Benedetto XVI e più recentemente la crisi sanitaria con le rigorose indicazioni di quasi tutto l’episcopato, perché la comunione sulla mano ridivenisse la modalità quasi esclusiva di distribuzione della Santa Eucarestia. Alcuni sacerdoti e fedeli sono tornati alle consuetudini più tradizionali, che avevano assunto e che credevano forse saldamente radicate. Questo arretramento lascia presagire un’oscillazione a seconda delle circostanze (il buon esempio non viene più dato dall’alto, la società e lo Stato sembrano esercitare pressioni sulle modalità di culto), le quali, nondimeno ed in modo oggettivo, non contrastano invincibilmente tali pratiche, che sarebbero anche potute restare: prova ne siano le comunità, in cui la forma extraordinaria viene celebrata e dove si è mantenuta la comunione sulla lingua. Tale situazione solleva anche interrogativi su quella che senza dubbio è stato una carenza di formazione, di persuasione della ragione e del cuore, ciò che avrebbe dovuto condurre in un’ipotetica direzione senza ritorno. La “buona stampa”, se ci si può permettere tale espressione, ha ancora molto lavoro da fare.
Un processo della Chiesa dal basso, che resta sempre possibile
Tale riforma della riforma – questo è il secondo elemento annunciato e senza dubbio il principale – non verrà dall’alto, almeno non nelle condizioni attuali. Lo si poteva ritenere possibile, con le decisioni ricordate, ma il loro perpetuarsi problematico[2] incoraggia non tanto a smettere di guardare in questa direzione quanto a non attendere ciò che non v’è alcuna necessità di attendere. Poiché effettivamente molto può essere fatto già a livello locale o diocesano.
Il primo campo d’azione consiste evidentemente nell’introduzione di elementi che qualificheremo come tradizionali, senza che per questo siano legati specificamente al messale tradizionale. La domanda originaria è la seguente: cosa, nelle possibilità offerte dal messale di Paolo VI, onora maggiormente la dimensione sacrificale e la dimensione sacra della messa? Per la prima dimensione, la scelta privilegiata e del resto esclusiva della preghiera eucaristica n. 1 (il canone romano) si offre come la strada più chiara. Senza dubbio l’aggiunta (come preghiere private) delle parole dell’offertorio della messa tradizionale sarebbe fruttuosa. Quanto alla seconda dimensione, il campo delle possibilità è più vasto: la celebrazione ad Orientem e la ricezione della comunione sulla lingua sono evidentemente da privilegiare. A ciò si aggiungano la lingua ed il silenzio, entrambi sacri: per la prima, si tratta con tutta evidenza del latino ed, essendo nel canto consuetudine piuttosto comune, sarebbe proficuo che, ad accompagnare la celebrazione, fossero le melodie gregoriane, composte espressamente per essa. Circa il silenzio, benché esista – è vero – nella forma ordinaria, spesso non fa che seguire un’azione (Vangelo, comunione) che induce alla meditazione personale; questo non è per niente il silenzio sacro, che accompagna l’atto e la forma come un’iconostasi sonora. I tempi dell’offertorio e della comunione ne offrono direttamente la possibilità. Come, durante il canone, potrebbe trovare un proprio spazio? Le odierne rubriche lo consentono?
La costituzione Sacrosanctum Concilium aveva invitato a fare in modo che «i riti manifest[ino] una nobile semplicità» (n. 34). Tutto quanto, dagli ornamenti al servizio della messa, dai vasi sacri all’ordine delle processioni, ecc., contribuisca alla nobiltà della liturgia, partecipa realmente di questa riforma della riforma… se in questo ed in ciò che precede la formazione in materia di fede e di devozione offre fondamento solido e durevole ai cambiamenti.
Ampliare la riforma della riforma
La riforma della riforma è anche una questione di persone (cfr. nota 2, ad esempio). Si potrebbe pure immaginare, secondo un medesimo processo di progressioni concrete, una riforma della riforma più ampia, che non sia liturgica ma pastorale. Il suo destino potrebbe dipendere specialmente dall’inserimento di preti degli istituti tradizionali nelle diocesi. Pochi vescovi, oggi, profittano od osano o vogliono trarre profitto dalle forze vive, ch’essi hanno chiamato. Un certo numero di ministeri potrebbero essere loro affidati in tutte le tipologie di cappellania (mondo della sanità, prigioni, scuole), nella catechesi e nel catecumenato, nella pastorale delle esequie o dei matrimoni: la questione del rito non si pone o si pone in secondo piano. Ma riteniamo che si debbano prendere maggiormente in considerazione le parrocchie ed i loro incarichi, la loro animazione. Affidare le parrocchie a preti votati alla forma extraordinaria porrebbe inevitabilmente domande da entrambe le parti, richiederebbe inevitabilmente aggiustamenti; il che è insormontabile[3]? Tanto più che, nel campo immenso dell’evangelizzazione, il rito della liturgia od anche gli aspetti che non dipendono dal rito (quelli che abbiamo sopra menzionato) rappresentano un soggetto pertinente? Quanti potrebbero testimoniare che coloro che suonano alla porta dei sacerdoti o che si incontrano nella piazza del paese o nei negozi, non pongono mai direttamente domande a questo proposito. Quanti potrebbero anche ripetere i riflessi prodotti in loro da ciò che, nella «nobile semplicità» del rito latino, questa stessa nobiltà aveva mostrato, quando fu data loro l’occasione di entrare in una chiesa, in particolare quale segno della cura che la Chiesa aveva avuto nel prendere in considerazione le loro domande, le loro esistenze.
La Chiesa deve riconquistare, davanti a Dio ed agli uomini, la Veritatis splendor del suo insegnamento e della sua liturgia[4]. È questo il solo proposito che si pone la riforma della riforma.
Don Jean-Marie Perrot
[1] Cfr. la nota seguente.
[2] Le possibili, future decisioni romane circa l’uso della forma extraordinaria del rito romano o almeno quelle che potrebbero riguardare gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, che raggruppano gran parte dei sacerdoti che la celebrano, ci sembrano cruciali anche per il futuro della riforma della riforma, intesa come un miglioramento in senso tradizionale del messale del 1969. È da sottolinearsi la seguente affermazione di Benedetto XVI nella lettera ai vescovi, che accompagna il motu proprio Summorum Pontificum, circa l’influenza della forma extraordinaria su quella ordinaria, ciò ch’egli considerava auspicabile: «Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI, sarà possibile manifestare in modo più incisivo di quanto non sia stato spesso fatto fino ad ora, questa sacralità che attira molte persone verso il rito antico». La forma extraordinaria, la teologia e la spiritualità ch’essa porta con sé rappresentano come un punto di riferimento per la forma ordinaria, ciò che sarebbe fuori luogo sopprimere per l’ars celebrandi della forma ordinaria. Un’indicazione a contrario di ciò può esser vista nell’analisi compiuta nel recente rapporto sull’applicazione del Summorum Pontificum dalla Conferenza episcopale francese: i seminari si sono coscientemente guardati da una diffusione della forma extraordinaria nel corso di studi, ch’essi propongono. Ma tutti riconoscono che lo stesso non si può dire dei seminaristi, i quali manifestano un interesse ed un’attrazione ben definiti verso il rito tradizionale. Se il riferimento divenisse molto meno accessibile, che resterebbe loro?
[3] Forse dovremmo prendere atto serenamente di quel che la messa domenicale è già, in molti luoghi, una messe elettiva e non territoriale. Ciò è chiaramente il caso dei fedeli della forma extraordinaria ed è anche il caso delle parrocchie “ordinarie” urbane; meno nel mondo rurale, è vero. Perché non dovrebbe essere così? Un parroco, che celebra nella forma extraordinaria nella tal chiesa, ove si recano i fedeli di altre parrocchie, ed inversamente i parrocchiani legati alla forma ordinaria, che devono recarsi in un’altra chiesa, questa non sarebbe una situazione inedita ed in sé scandalosa, se tutti fossero tranquillamente preparati.
[4] Veritatis Splendor è con tutta evidenza il titolo dell’enciclica morale di Giovanni Paolo II; è così che anche Benedetto XVI qualifica la liturgia: «La liturgia, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un legame intrinseco con la bellezza: essa è Veritatis splendor» (Sacramentum caritatis n. 34).