L’ultimo grido di Bernanos
Pubblichiamo qui, per gentile concessione delle Edizioni Homme nouveau, l’introduzione all’Encyclique aux Francais. Le testament politique de Bernanos [Enciclica ai Francesi. Il testamento politico di Bernanos], che consigliamo vivamente di ordinare: Encyclique aux Français – L’Homme Nouveau.
«Ciò che si è incredibilmente indebolito nella Chiesa negli ultimi duecento anni è la virtù della Fortezza. Senza la virtù della Fortezza, la stessa carità si sciupa e perde valore». Le pagine di Georges Bernanos qui pubblicate sono, alla lettera, testamentarie. Le ha scritte nei mesi di aprile e maggio 1948 su due quaderni aventi per titolo: Encycliques [Enclicliches]. Gli editori hanno deciso di titolarle: Encyclique aux Français [Enciclica ai Francesi]. È probabile, in effetti, che questo testo rappresentasse il seguito della Lettre aux Anglais [Lettera agli Inglesi], altrettanto forte, redatta nel 1940-1941, là dove annunciava una terza enciclica destinata ai Tedeschi[1].
Georges Bernanos scrisse questo testamento politico appena terminati i dialoghi di un film ispirato a La dernière à l’échafaud [L’ultima al patibolo] di Gertrud von Le Fort, commissionatigli da Padre Bruckberger, Dialoghi delle Carmelitane, che rappresentano realmente il suo testamento spirituale. Rientrato dal Brasile nel giugno 1945, è ben presto sprofondato in un grande senso di solitudine, di vuoto. Era profondamente deluso dalla Francia così come l’aveva ritrovata, mediocre, devastata dalla menzogna e dalle ideologie, anche tra i cattolici, la cui fede «è svalutata come il franco», scrisse ad un’amica. Fa allora apparire in Francia il suo ultimo romanzo, il più cupo, scritto e pubblicato in Brasile, Il Signor Ouine (ch’egli in un primo tempo aveva intitolato La paroisse morte [La parrocchia morta]). I suoi articoli, sempre feroci, radicali, bloyani, provocano risposte tanto più vivaci in quanto si riteneva stupidamente che con I grandi cimiteri sotto la luna il vecchio realista nel 1936 avesse cambiato registro. Ci furono scambi violenti, in particolare con Temps présent [Tempo presente] di Stanislas Fumet. Lo si accusò di «aver colpito a casaccio», di aver descritto una democrazia salvata da eroi (quanti furono i coraggiosi durante la Resistenza?, chiese. Una manciata, ma adesso tutti dicono di avervi aderito: che «barzelletta», che «bluff»!). Moltiplicò le conferenze in Francia, nei Paesi francofoni, nel Maghreb. Nel 1946 pubblicò La Francia contro la civiltà degli autòmi, libro scritto in Brasile nel 1944, in cui se la prese con la meccanizzazione e con i tecnologi di un mondo, che si americanizzava. E poi, c’è la sconvolgente conferenza tenuta a Tunisi nel 1947: «Nos amis les saints» [«I nostri amici i santi»].
Fu allora che cominciò l’Encyclique aux Français, che tuttavia non portò mai a termine. Col pretesto delle conferenze, la famiglia Bernanos lasciò la Francia e peregrinò per la Tunisia, per stabilirsi alla fine a Gabès. Georges Bernanos aveva sessant’anni. Soffriva di cancro, non ancora diagnosticato, un cancro che gli stava già consumando il fegato. È al suo capezzale che egli scrisse quest’ultima epistola. In maggio, il suo male si era aggravato e fu trasferito in Francia, dove morì il 5 luglio 1948 presso l’ospedale americano di Neuilly.
Tali e quali sono, queste pagine incompiute potrebbero sembrar avere una carica profetica, una parte del cui interesse risiede nella smisuratezza stilistica. Non è per niente così. Per quanto possa sembrare paradossale, Bernanos vi fornisce un’analisi ancora sfumata di quel che restava della cristianità alla fine del XIX secolo, quando si verificò l’esplosione prodotta dall’enciclica di Leone XIII sul Ralliement, non come sociologo, né come storico universitario, ma come giornalista, nel senso nobile del termine, sulla linea di Veuillot e Laurentie.
Il testo è per intero consacrato al tema principale del Bernanos militante: il carattere estremamente funesto delle disposizioni per aderire alla Repubblica nata dalla Rivoluzione, impartite da Leone XIII ai cattolici francesi nel 1892 con l’enciclica Au milieu des sollicitudes. Egli ne vedeva le conseguenze sotto ai propri occhi, dopo l’ultima guerra, quando i cattolici non avevano più alcuna capacità di resistere ad una società mortifera, che svuotava gli individui di qualsiasi respiro dell’anima, salvo di quello dell’angoscia: «Per condannare a tempo debito questa Società moderna, che si pretende liberale, ma in cui la Libertà non è altro che la maschera della sottomissione la più abietta all’economia, prefigurazione cieca della servitù totalitaria, non era la Carità, che mancava alla Chiesa, ma la Fortezza».
Ciò che restava della cristianità dopo la Rivoluzione
Nella prima parte della sua Encyclique, la più lunga, Bernanos difende in qualche modo… la borghesia benpensante della fine del XIX secolo, non in quanto tale, bensì per ciò che le restava del senso cristiano. Queste considerazioni storiche si basavano anche sull’introspezione: è il figlio del tappezziere-decoratore del quartiere della Maddalena a parlare di un contesto sociale che lui ha conosciuto, molti dei cui membri, come suo padre, leggevano Drumont ed hanno visto i loro figli entrare nelle fila dei Camelots du Roi [Strilloni del Re] per scontrarsi con i repubblicani. Ciò che restava all’epoca della società cristiana era «un cristianesimo di cristiani mediocri con le sue discipline particolari, con le sue legittime fedeltà politiche, uno spirito di corpo». Tale cristianesimo valeva più di una massa di cristiani mediocri, questi cristiani delle «medie classi di salvezza», per citare Joseph Malègue, poiché esso era un corpo o era in grado di tornare ad esserlo. Ancora serviva che gli uomini di Chiesa contribuissero a riformare la società francese. «Questa modesta cristianità borghese non era certo all’altezza delle grandi comunità medioevali dello stesso tipo, ma aveva dell’onore», strutturato da un’élite, certo piuttosto impallidita, che si riassumeva in una borghesia rimasta cattolica o ridiventata cattolica a partire dal 1848: «Questa borghesia cattolica era una specie di cristianesimo senza dubbio alquanto degenerato, molto indebolito, tuttavia ancora una specie di cristianesimo».
Il polemista lo difende, mezzo secolo dopo, da coloro che ne sono usciti e che l’attaccano ovvero i borghesi cattolici del dopoguerra, democratici cristiani del Movimento repubblicano popolare (MRP), che davano colpi sul petto dei loro padri, colpevoli secondo loro di non aver manifestato che egoismo nei confronti del popolo. Nel frattempo, è vero, l’idea di cristianità era stata pugnalata dal papa stesso: i cristiani dell’MRP sono figli di quelli del Sillon, che hanno obbedito con fervore a Leone XIII e che, d’altra parte, come Mauriac, dicevano di san Pio X: «Quel santo non è della mia parrocchia!». Questa democrazia cristiana apparve di colpo a Bernanos «come la borghesia del XIX secolo all’ultimo stadio del suo declino» a causa degli errori dei suoi capi religiosi.
Suo rappresentante ne è dunque François Mauriac, che dall’inizio alla fine dell’Encyclique gli serve come capro espiatorio. Bernanos, che su di lui aveva appena scritto su L’Intransigeant [L’Intransigente]: «[Il signor Mauriac] godeva solo nel veder umiliare e disonorare una società borghese, che non aveva più niente da dargli per placarlo, perché le aveva chiesto tanto» (Bernanos, Essais et écrits de combat [Saggi e scritti di battaglia], II, op. cit., pag. 1211). Egli riservava lo stesso sarcasmo tanto alle sua qualità di «cristiano evoluto» quanto a quelle del suo equivalente ecclesiastico, l’accomodante e democristiano cardinale Suhard, arcivescovo di Parigi: «Dal 1940 al 1945, il Cardinale ha dato più volte prova di non essere un uomo indisponente, ma solo un uomo in età avanzata» (ibidem, pag. 1213).
Mauriac vive in effetti dopo la guerra il suo periodo pro-MRP come la maggior parte dei vescovi francesi. Difende il partito di Georges Bidault contro il Raggruppamento del Popolo francese (RPF) del generale de Gaulle, che stava assorbendo, come si dice, una parte del suo capitale elettorale. RPF a cui Bernanos, sollecitato da Malraux, si era rifiutato di aderire: il suo gaullismo in lui si esprime in articoli sotto forma di Messages imaginaires [Messaggi immaginari] del generale de Gaulle, che avrebbe dovuto parlare ai Francesi della decomposizione della Francia e del suo avvilimento. In realtà, Bernanos non ha sempre detestato Mauriac, ma non lo ha nemmeno mai veramente apprezzato. Tra loro due, la mano tesa è sempre stata quella di Mauriac, che, nel 1938, lo salutava come «il solo romanziere della santità che possediamo» e lo descriveva come un fratello romanziere, che odiava l’insulsaggine della falsa virtù: «La forca ove inchioda il suo parroco di campagna si staglia su tenebre piene di crimine» (François Mauriac, Journal, Mémoires politiques [Diario, Memorie politiche], Robert Laffont, 2008, pag. 247). Dopo la guerra, Mauriac aveva proposto a Bernanos, tornato dal Brasile, di aprirgli le porte dell’Académie française, ciò che quest’ultimo si era rifiutato di fare. Mauriac ne rimase deluso, non riuscendo a capire che la lotta politica di Bernanos non era sullo stesso piano della sua: «Dov’è Péguy, si chiedeva Mauriac nel 1946? Perché i suoi figli tacciono? È in questo spazio vuoto che attendevamo Bernanos, in questo spazio che io gli mostravo e lui non mi ha risposto che con offese» (ibidem, pag. 435).
Bernanos accusa quindi Mauriac ed i suoi amici democratico-cristiani, che «amano il popolo e non ne sono amati», di maledire con spirito farisaico la vecchia borghesia, da cui essi stessi provengono, perché non avrebbe adempiuto al suo «dovere sociale», quel dovere che pensavano di aver scoperto con Marc Sangnier. Ma i cattolici sociali erano tali ben prima dei preti democratici del Sillon e dei preti-operai del dopoguerra: «La dottrina del Conte di Chambord e quella del Conte di Parigi – osserva Bernanos – non erano per niente reazionarie, basti dire che la prima ha ispirato uomini come il signor de Mun, La Tour du Pin, il giovane Lyautey». Se, del resto, Bernanos non attribuisce grande importanza alla Rerum Novarum ed a quella che in seguito è stata chiamata la «dottrina sociale della Chiesa», non è perché si opponga a quanto propone l’enciclica «sociale», ma, al contrario, perché gli rincresce quel che non dice. Avrebbe voluto che essa integrasse il suo insegnamento in favore delle classi lavoratrici nel contesto di una crociata antimoderna totale, sociale certo, ma anche politica: «Ancora una volta, io non deploro affatto la crescente importanza data al Sociale negli ultimi cinquant’anni da una certa parte dell’opinione pubblica cattolica. Io deploro soltanto che questa crociata sociale, che avrebbe dovuto essere quella della Cristianità Libera contro il Mondo Moderno, sia stata condotta quasi esclusivamente contro la Borghesia francese».
E poi i democratici cristiani si fanno alcune illusioni sul popolo che compatiscono. Non essendo mai stato guidato da capi degni di questo nome, è divenuto uno strumento nelle mani di politici di sinistra, «molto meno interessati alla giustizia sociale che al più basso anticlericalismo». Inoltre, se «il farisaismo del Sig. Mauriac consiste nell’opporre in passato una borghesia rigidamente egoista e formalista ad una classe, di cui egli finge di credere che chieda solo e con modestia il suo posto nella Società», egli dovrebbe comprendere come questi proletari soggiogati da leader marxisti volessero in realtà prendere il controllo della società o piuttosto permettere ai propri capi di prenderlo.
È vero che «la borghesia del XIX secolo non era una classe di padroni». Precisa: «intendo dire capi». Essa non aveva veramente nulla in comune con quella dell’Ancien Régime. Inizialmente, fu un insieme di personaggi “arrivati” arricchitisi con l’acquisizione dei beni della Chiesa e degli emigrati. Ma venne poi addomesticata dall’ascesi amministrativa che le impose Napoleone e presto ottenne «alcune delle virtù di una vera classe». I suoi membri erano dei cafoni divenuti padroni, non padroni di un popolo diventato proletario, con i primi che esercitavano sui secondi «la naturale durezza di un contadino “arrivato”». Ma questa borghesia, almeno la borghesia media era onesta, laboriosa, patriottica. Educata nei collegi religiosi, aveva poco a poco abbracciato il cattolicesimo. Sembrava terra terra, ma aveva plasmato la propria immaginazione sui libri di Walter Scott e di Alexandre Dumas. Coloro tra i suoi ragazzi, che erano figli di realisti, coltivavano la memoria di Cadoudal o de Charrette, ma si entusiasmavano anche al ricordo dei granatieri baffuti di Waterloo. Coloro che erano figli di bonapartisti divoravano i racconti della guerra di Vandea e piangevano gli Svizzeri eroici sgozzati per difendere il re.
Questi uomini non appartenevano certo alla vecchia Francia, ma comprendevano «un gran numero di commercianti e di piccoli industriali di un’onestà scrupolosa alla maniera di César Birotteau, dei funzionari esemplari, dei magistrati, degli ufficiali, dei professori fieri di servire lo Stato, che non confondevano con la Repubblica, e nel quale la loro ingenuità credeva ancora di riconoscere la Patria». In Nous autres Français [Noialtri Francesi], Bernanos aveva scritto: «Chiediamo alla Chiesa di mantenere nel mondo abbastanza spirito cristiano da rendere possibile il Cristianesimo». Possibile con questo materiale impoverito. Ma è appunto per questi uomini, una cristianità possibile che doveva essere promossa, che Leone XIII ed i suoi prelati diplomatici fecero esattamente il contrario, dicendo loro che tutti i Sillabi e tutte le encicliche antimoderne non erano in fondo che parole adatte ad incantare e che dovevano servire lealmente la democrazia di Rousseau…
La deflagrazione del Ralliement
La seconda parte dell’Encyclique aux Français sviluppa – inizia a sviluppare ciò che la malattia gli ha impedito di proseguire – le conseguenze di Au milieu des sollicitudes, che ha fatto sì che «milioni di brave persone si rendessero conto di esser state ingannate». Fin dalla Rivoluzione, l’insegnamento romano aveva condannato senza tregua il mondo moderno ed i principi della democrazia nata dalla Rivoluzione (e avrebbe continuato a farlo fino al Vaticano II). Le «brave persone», che andavano a messa la domenica, avevano quindi costantemente sentito «l’ardente retorica delle lettere pastorali quaresimali e delle lettere episcopali, che denunciavano la persecuzione e facevano appello ai martiri». Senza dubbio c’erano già stati numerosi accomodamenti pratici e ce ne sarebbero stati altri, più numerosi ancora, dopo l’enciclica di papa Pecci. Ma essa aveva il valore di una promulgazione, scrivendo nero su bianco che tutte le condanne del mondo moderno tuonate dai predecessori di Leone XIII e più ancora da lui stesso e con la massima precisione dottrinale (tra le altre, l’enciclica Immortale Dei sulla costituzione cristiana degli Stati nel 1885), non erano da prendere troppo sul serio. I cattolici francesi compresero che tutto questo non aveva in fondo «molto più significato di quello delle professioni di fede elettorali».
Ebbene, «questi borghesi mediocri [che] sembravano davvero mediocri» hanno capito di esser stati presi in giro. A meno che essi non fossero rimasti scandalizzati, nel vero senso della parola, spinti anch’essi alla doppiezza e al tradimento, come i parrocchiani di un parroco che getta la tonaca sono sollevati nel vedere come la morale da lui predicata fosse di scarso valore. I prelati della Segreteria di Stato, ed il papa con essi, avevano creduto di compiere una combinazione di alta diplomazia, un «aggiramento» geniale dei repubblicani anticlericali creando per loro dei fratellini repubblicani clericali, che, senza cambiare sistema politico, avrebbero aggiustato le leggi antireligiose. Ma le «brave persone», cui si rivolgevano i prelati romani, «non erano così estranee al loro tempo da non esser capaci di riconoscere nel Ralliement qualcosa delle caratteristiche tipiche di quelle combinazioni politiche e finanziarie già comuni all’epoca, come una specie di questione di borsa».
«Mai i capi tradirono e disonorarono più sfrontatamente i servi, colpevoli solo d’aver creduto alla sincerità delle loro invettive e delle loro maledizioni. Mai la “Politique d’abord” [la politica innanzitutto] tanto rimproverata al signor Charles Maurras ha trovato un’applicazione più cinica». Ne discesero delle conseguenze. Innanzi tutto, «le giovani generazioni borghesi non rinnegarono per questo la Chiesa, persero soltanto completamente lo spirito del Regno di Dio ed il senso dell’onore cristiano». In altre parole, scomparve dall’anima cattolica il desiderio di ricostruire la Città cristiana. Questo spiega certamente, dice Bernanos, la straordinaria fortuna del nazionalismo laico, che sostituisce o ingloba la fedeltà alla Francia cristiana, in Barrès più ancora che in Maurras.
In seguito – ma è su questo che lo sviluppo di Bernanos s’interrompe – le disposizioni del Ralliement volgono a «slegare una parte considerevole dell’opinione pubblica cattolica francese dalla Chiesa o, più precisamente, dal clero». Questo significa che, assistendo dopo la guerra all’ascesa della secolarizzazione all’inizio dell’era consumistica dei Trent’anni Gloriosi, e constatando i primi, grandi scricchiolii nel cattolicesimo a meno di quindici anni dall’apertura del Vaticano II, Bernanos ha ritenuto responsabile di tutto questo le direttive del Ralliement? Sì, soltanto in parte, ma la parte più importante, quella che deriva del fatto che «nulla incoraggia l’audacia dei malvagi quanto la debolezza dei buoni», come diceva San Luigi Maria Grignon de Montfort. Il tradimento dei capi ha provocato quello dei soldati. Questo ha rappresentato un grande peccato, perché se «questi individui non erano uomini della vecchia Francia, erano forse solamente in procinto di divenirlo». Il «forse» tempera un eccessivo ottimismo. Ciononostante, era il senso stesso del cristianesimo a venire colpito. «Prima di inaridirsi, era necessario che la Cristianità si svuotasse, che le immense riserve della sfera spirituale si corrompessero nell’organismo medesimo al punto da divenire per esso una materia da eliminare, un semplice prodotto di scarto».
Ed ecco che questo eliminare la struttura del Regno di Dio è stato accolto come un «rinnovamento» dai democratici cristiani. Sarebbe giunto presto un «rinnovamento» più completo, una «nuova Primavera della Chiesa», in cui il Sillabo sarebbe stato rinnegato non solo nella pratica, ma anche come principio. Dio ha fatto a Georges Bernanos la grazia di richiamarlo a sé prima che dovesse conoscerlo.
Don Claude Barthe
[1] Forse il nome enciclica voleva indicare l’intento dell’autore di indirizzare una contro-enciclica, per contrastare quella mandata ai Francesi da Leone XIII e le cui conseguenze sono l’oggetto di quest’ultimo testo di Bernanos. Una parte di questo scritto («Questi democratico-cristiani amano il popolo, ma il popolo non ama loro…») è stata pubblicata su Combat il 7 marzo 1950. Jean-Loup Bernanos ha in seguito pubblicato con Plon nel 1975 il testo nella sua interezza, insieme a sei articoli apparsi in Brasile nel 1942 col titolo La vocation spirituelle de la France [La vocazione spirituale della Francia]. Questa Encyclique aux Français appare nell’edizione critica della Pléiade Edizioni: Bernanos, Essais et écrits de combat [Saggi e scritti di battaglia], II, Gallimard, pagine 1236-1247.