Padre Congar, un centrista del progresso
Lo storico Étienne Fouilloux pubblica una biografia del Padre domenicano Yves Congar, 1904-1995 (Salvator, 2020), che, ben documentata, è destinata a fare epoca. Con una precisione il più possibile esaustiva, l’opera si occupa di un teologo che fu una delle figure maggiori del Vaticano II, tanto per la propria preparazione remota (Chrétiens désunis. Principes d’un « œcuménisme » catholique, Cerf, 1937 – Cristiani disuniti. Principi di un «ecumenismo» cattolico) o più vicina dopo l’ultima guerra (Vraie et fausse réforme dans l’Église, Cerf, 1950 – Vera e falsa riforma nella Chiesa), che per la realizzazione degli stessi testi conciliari, specialmente, ma non solamente, Lumen Gentium ed i tre testi riguardanti la libertà religiosa, l’ecumenismo, il dialogo con le religioni.
L’influenza di Padre Congar sulla dottrina ecumenica del Vaticano II fu considerevole. Si è ecumenisti, affermava in Cristiani disuniti (pag. 173), «quando si crede che un altro sia cristiano, non malgrado la propria confessione, ma in essa e attraverso essa». Di là consegue l’elaborazione della dottrina impressionista, la quale vuole che la Chiesa di Cristo non si identifichi assolutamente con la Chiesa cattolica, bensì sussiste in essa (Lumen Gentium 8), e per la quale esiste un’ecclesialità per gradi nella Chiesa cattolica e nelle altre comunità (Unitatis redintegratio 3).
Padre Congar non era un estremista: condivideva la visione di Paolo VI, che voleva documenti aperti in grado di raccogliere la maggior adesione possibile, ma era anche visceralmente ostile al tridentinismo del «sistema romano» dell’epoca di Pio XII, il quale, è vero, l’aveva un po’ strapazzato.
Immensa fu la sua delusione dinanzi alla crisi postconciliare (Situation et tâches présentes de la théologie, Cerf, 1967 – Situazioni e macchie presenti della teologia) e le sue reazioni furono talvolta simili a quelle di Maritain, Lubac, Gilson: «Ne ho abbastanza dei cambiamenti», scriveva a dei liturgisti (Fouilloux, p. 291). Critica le traduzioni liturgiche. Geme per la crisi delle vocazioni. Deplora che lo si impieghi per «intaccare e demolire». Ma non rimpiange nulla. Al contrario, contro il Paolo VI di Humanae vitae e della collegialità inquadrata, lui raccomanda una prosecuzione dell’aggiornamento e della marcia in avanti, poiché il Vaticano II rappresenta una base di partenza: «tutto il lavoro del Concilio è a metà cammino» (Une vie pour la vérité, Le Centurion, 1975 – Una vita per la verità – p. 149).
Si ha voglia di dire che il pontificato attuale faccia avanzare il Consiglio sulla strada in mezzo alla quale era rimasto. Ma non è totalmente vero. È vero che gli uomini che sono attualmente ai posti di comando stanno pienamente sviluppando tutte le virtualità del Vaticano II. Ma, malgrado tutto, questo resta e resterà sempre un concilio «centrista»: l’ecumenismo, per fare un esempio congardiano, è un compromesso tra l’antica ecclesiologia e l’ecclesiologia eterodossa. È questa la debolezza del Vaticano II: viene rifiutato o messo tra parentesi alla «sua destra» ed alla «sua sinistra». Ma è anche ciò che fa la sua forza: sfugge a tutti i Sillabi.
Pio Pace