01/09/2022

Sullo scisma

Par Philippe de Labriolle

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L’aggiornamento della Chiesa cattolica era l’obiettivo assegnato da papa Giovanni XXIII al concilio Vaticano II. In effetti, i Padri conciliari respinsero gli schemi preparati dalla Curia. La morte di Giovanni XXIII e l’elezione di Paolo VI fecero del Vaticano II la preda dei novatori, i quali composero un concilio ad immagine delle proprie utopie, coperti in ciò dal papa, che, nel discorso di chiusura, proclamò il suo tristemente famoso culto dell’uomo. Il sisma fu generale e tale da distruggere rapidamente le pratiche cattoliche, al punto che, dal 1966, il dopo-concilio parve ai commentatori illuminati comportare immediatamente un rischio di scisma, sembrando i novatori fuori controllo ed il corpo episcopale lontano dall’intento di condannarli. La Chiesa olandese, punta avanzata in quel momento, si mostrò come la più ardita nel contestare la Chiesa cattolica romana. Ma il cardinale Alfrink, come ha notato Louis Salleron nella sua cronaca sul giornale Carrefour il 3 febbraio 1971, dichiarò di non avere, per quanto lo concernesse, la minima intenzione di separarsi dalla Chiesa, una Chiesa che gli lasciava praticamente qualsiasi libertà. Commentò allora il giornalista: la nozione di scisma non si allontana, evapora. E si basò sul libro di Padre Louis Bouyer, La décomposition du catholicisme [La decomposizione del cattolicesimo] (Paris, 1968) per notare: come si può esser scismatici in una Chiesa in decomposizione?

Nel 1977, nel suo libro Rome n’est plus dans Rome [Roma non è più a Roma], lo storico cattolico Hubert Montheillet, autore di numerosi romanzi polizieschi e grande appassionato d’intrighi da svelare, ha reso nota la propria adesione senza riserve al Liber accusationis in Paulum sextum che nel 1972 il sacerdote Georges de Nantes aveva portato in Vaticano. Papa Paolo VI è, in effetti, «eretico, scismatico e scandaloso» agli occhi dello storico, che sostiene il presbitero nella sua argomentazione. Ma rimprovera severamente quest’ultimo d’aver accusato mons. Lefebvre, che ha ignorato nel 1976 il divieto romano relativo alle ordinazioni di Écône, d’aver compiuto un atto scismatico. Con quale logica disobbedire ad un papa scismatico può rappresentare un atteggiamento scismatico, si chiede l’autore?

«Voi non siete più nella Chiesa!»

Nell’immediato post-concilio, il fedele di un’epoca da ricordare e che dubitasse apertamente dell’opportunità di una novità teologica o liturgica, veniva bollato con una sola, ma ricorrente sentenza: Lei non è più nella Chiesa. Niente meno. Essere battezzati non aveva un gran peso, qualora l’adesione allo spirito del Concilio non avesse rigenerato la chiamata dell’epoca. L’esser dentro o fuori significava, per il solo inappellabile giudizio di un quidam, autoproclamatosi magistrato, passare da una condizione fraterna a quella di una zavorra di cui disfarsi nuovamente. Certo, in tempi normali, solo l’autorità suprema della Chiesa ha teoricamente il titolo per bollare come scismatica formaliter una lobby ecclesiastica, che intenda contestare a Roma il diritto di opporsi ai suoi obiettivi eterodossi, istigatori di divisione. In pratica, chi si ritenga precorritore dei tempi nella comprensione e nella formulazione di nuovi orientamenti nella Chiesa non ha, a priori, l’intenzione di lasciarla. Al contrario, nutrendo la speranza di comunicare la propria convinzione illuminata a quanti più possibile, ricorrendo ai meccanismi istituzionali ed a personaggi compiacenti, getta a mare spudoratamente i riluttanti, senza temere il loro coalizzarsi in una sorta di sopravvivenza scismatica. Nemmeno v’è una fazione dei demoralizzati, poiché i demoralizzati si demoralizzano a vicenda, la raccolta dei ritagli di un tessuto non fa un abito. In breve, non è scismatico chiunque voglia…

L’individuo e la lobby comportano rischi distintivi. Un organismo vivente, che non sappia più identificare la categoria alimentare compatibile, è un organismo malato. Una società, che non sappia più distinguere l’amico da integrare dal nemico da ridimensionare, sarà rapidamente vittima di tale incompetenza. E se non ci sono più «dottori della verità evangelica», i novatori possono esibire la loro potenza e misurare il loro potere con l’apparente scomparsa di qualsiasi autorità al servizio del vero e di fedeli bisognosi di una guida affidabile. Tale autorità perdura, ma è posta al servizio del silenzio nei ranghi. Cacciare coloro che deviano dando un nome alle loro devianze è un’esigenza di verità più ancora che di ordine pubblico. Ma richiamare la legge quando si tratti, per il nemico, di cambiarla non significa per un vescovo risvegliare l’ordine che fu, soffocare lo Spirito, svelare la ristrettezza del suo pensiero. Dall’amore per l’ordine, condizione di pace, all’ordine dell’amore, fantasia degna delle Nuvole di Aristofane, ne è risultato, prima del ’68 ma dopo il Concilio e a causa di esso, il divieto di vietare!

Com’è potuto accadere che l’istituzione non abbia reagito a questo rinnegamento pratico, a questo abbandono del ruolo episcopale, mentre lo svuotamento, dolorosamente evidente, delle parrocchie è stato denunciato solo da sconosciuti e subalterni, a loro rischio e pericolo, per l’onore di Dio? Attraverso quale stratagemma demoniaco la Chiesa cattolica, Madre e Maestra di Verità, anima della Cristianità francese dopo Clodoveo, si è lasciata corrodere fino al midollo senza che la gerarchia abbia reagito? È stata ripristinata con una dignità senza pari, quella che il Vaticano I, interrotto dalle truppe del Risorgimento, non poté offrire che al sovrano pontefice. Giovanni XXIII aveva preteso di rivitalizzare la Chiesa. Certo, non è vissuto abbastanza per mantenere la sua promessa. Dunque in quelle stesse mani, il «santo» concilio ecumenico ha potuto giocare il ruolo di un cavallo di Troia al punto da corrompere il grande corpo ecclesiale, l’arca della salvezza per le società, il tempio delle definizioni di dovere ed, in particolare, dei nostri doveri verso Dio? Ne risulta che l’imponente corpo episcopale, dopo 50 anni, santuarizza il suo Concilio, incensandolo come mai è avvenuto prima. Cerchiamo di capire perché, come e chi, di fatto, abbia respinto con forza l’autodistruzione della Chiesa. Rari pontefici, preti coraggiosi ma perseguitati, famiglie in gran numero, laici colti, fedeli di rango…

Grandi testimoni del Concilio e del dopo Concilio hanno, in tempo reale, descritto ciò che vedevano. Essi si sono adoperati per manifestare pubblicamente la loro personale costernazione e quella che, attorno a loro, è stata espressa in una voluminosa cronaca. Distinguiamo, tra i Francesi, alcuni dimenticati o ad un passo dall’esserlo: il domenicano Bruckberger e la sua rubrica sul giornale L’Aurore (1976/1977), Louis Salleron su Carrefour (1968/1974), Jean Madiran in Itinéraires, apparsa nel 1956, Édith Delamare in Monde et vie e l’atipico Hubert Monteilhet, cui si deve, nel 1977, l’espressione «Roma non è più a Roma». Queste penne incisive, a volte brutali, hanno tentato l’impossibile: essere ascoltate. Sono benvenute le antologie, che ci restituiscono questi scritti, al di là dell’effimero sostegno ricevuto. Il clamore dell’epoca è univoco: la Chiesa di Francia stava morendo ed i vescovi si sono comportati come amici di coloro che la stavano distruggendo.

Pienezza del sacerdozio, evanescenza episcopale

La Verità, che ha fatto della Chiesa ciò ch’essa è divenuta, viene ritenuta insopportabile per i nostri contemporanei, poiché incompatibile con la Modernità. San Paolo ci aiuta a comprender questo con il suo famoso aforisma Oportet hæreses esse ai Corinzi. È bene che l’errore s’esprima, affinché coloro che dicono la verità vengano onorati. È proprio questa la divisione che l’episcopato ricusa, unendosi ai devianti, allo scopo di non creare fratture nella Chiesa! Tale è l’analisi persistente, che, sessant’anni dopo l’inizio del Concilio Vaticano II, continua a scandalizzare la coscienza cattolica. Leggere o rileggere le testimonianze dell’epoca significa constatare che nulla è cambiato, se non l’adozione di uno statu quo, dove tutto è permesso salvo denunciare l’apostasia. In questo senso, un vero scisma vecchio stile è stato l’espressione di un’energia vitale, posta al servizio di un’idea forte. Al contrario, l’evanescenza episcopale, che accompagna l’accesso alla «pienezza del sacerdozio», è uno dei fenomeni più sconcertanti del dopo-Concilio. Essa è troppo generale, per colpire delle individualità, e troppo duratura, per non essere sistemica.

L’ipotesi, secondo cui il Concilio non sarebbe stato applicato correttamente, contraddice il fatto che i vescovi incaricati della sua applicazione siano stati quelli, che ne avevano approvato gli schemi. Gli stessi Padri conciliari si trovavano dunque nella posizione migliore di chiunque altro per procedere o far procedere (Cæsar pontem fecit) nelle opere concrete in sintonia ottimale con lo spirito dei tempi nuovi. Gli abbandoni di massa del sacerdozio, il crollo immediato delle vocazioni, i capricci dei preti novelli, la defezione spettacolare dei cattolici praticanti, tutto questo non provocò quasi alcun allarme nella gerarchia, se non nell’ambiguo Paolo VI, che ostentò preoccupazione, ma senza dominarla. Quanto ai vescovi francesi, questi si rivelarono inflessibili nel confronto con qualsiasi critica portata agli atti del Concilio ed alle loro conseguenze dirette. Ecco un esempio piuttosto mordace, che ci condurrà sulla giusta via.

L’Avvento 2021 ha visto riapparire nel testo francese del Credo cattolico l’espressione «consustanziale al Padre», corrispondente esattamente al testo latino «consubstantialem Patri», così tradotto e pensato dopo Nicea. Però, nel 1964 e fino alla recente modifica sopra indicata, i fedeli si videro imporre, per tradurre consubstantialem Patri, l’enunciato «della stessa sostanza del Padre», che rompeva con l’abitudine precedente e tradiva il senso esatto, combinandone un assurdo teologico. Circa 7.000 firme di cattolici istruiti e noti come tali impreziosirono una petizione, che invocava di restituire il «consustanziale» ai vescovi francesi. Portata nel giugno 1967 da uno tra i più illustri sottoscrittori al cardinal Lefèbvre, presidente della Conferenza episcopale francese, la petizione fece un buco nell’acqua, ottenendo risposta negativa, non priva di sale: «Quando un gruppo di persone [tra cui numerosi accademici, però!] si preoccupa di raccogliere firme in gran numero allo scopo di presentare all’episcopato una petizione ed ottenere da esso, che, con pubblica dichiarazione, prenda posizione, questo rassomiglia troppo ad una sfiducia verso l’integrità morale della gerarchia. Tale raccolta, nello specifico, lo sembra ancor di più in quanto durante l’intero Concilio, su certe riviste, non si è mai smesso di lasciar intendere che alcuni vescovi… «[…]. Se lui [il vescovo] interviene, sembra che stia cedendo alle pressioni ed agendo in modo fazioso. Perde la sua autorità».

L’aneddoto ci dispenserà da lunghe e dettagliate esposizioni. Lumen Gentium 20/27, a cui rimandiamo il lettore, incensa come non mai il ruolo del vescovo. All’attenzione del fedele, che lo pensava successore degli apostoli, nominato dal Papa, il paragrafo 27 cambia l’ordine di valori. «I vescovi reggono le Chiese particolari a loro affidate come vicari e legati di Cristo […]. Questa potestà, che personalmente esercitano in nome di Cristo, è propria, ordinaria e immediata […]. Ad essi è pienamente affidato l’ufficio pastorale […]; né devono essere considerati vicari dei romani Pontefici, perché sono rivestiti di autorità propria e con tutta verità sono detti «sovrintendenti delle popolazioni» che governano. La loro potestà quindi non è annullata dalla potestà suprema e universale, ma anzi è da essa affermata, corroborata e difesa». In poche parole, «il santo concilio ecumenico», quasi per riparare al «trattamento di favore» papale riservato dal Vaticano I, erige, in una Costituzione Dogmatica, il sacerdozio plenario degli Ordinari ad uno status feudale di immediato Diritto Cristico. Che ne derivi l’altezzosa tutela di un’autorità tanto più olimpica quanto più al di sopra della mischia e che un protocollo degno della Corte di Spagna tenga lontani gli accattoni di un vasto Terzo Stato polveroso, ecco ciò che ci allontana dalla bontà del vescovo Myriel, benefattore di Jean Valijean, o dalla combattività realistica del vescovo Freppel di fronte ai nemici della Chiesa. Cosa è prezioso per un vescovo timbrato LG? Da una parte la santità del diritto legato allo status completamente nuovo, stato che nessuna valutazione saprebbe oscurare, dall’altra il conatus di Spinoza: «Ogni essere tende a perseverare nell’essere», soprattutto quando la minestra è buona…

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Scisma, mio bel scisma! Il corpo episcopale, magnificato dai suoi propri incarichi, non è giunto ai propri fini, a saper in mezzo secolo escludere dalla sua comunione tutti quegli accattoni attaccati alla Fede di un tempo? Coloro che temevano uno scisma geografico, reso a priori insignificante dalla decomposizione del tessuto ecclesiale, hanno pensato alla vera scissione, che si è consumata sotto i nostri occhi e che una vana deferenza ha impedito di chiamare abbandono di paternità? Ebbri della loro nuovissima dignità, essi hanno mollato gli ormeggi, hanno aderito al Nettare ed all’Ambrosia, infine si sono liberati dalla zavorra di un vano popolo retrogrado… Appoggiatisi al balcone d’Epicuro, se ne ridono delle nostre angosce terrene. Ne risponderanno, non dubitiamone!

Philippe de Labriolle