Cristo Re oggi: una dottrina vuota
Il nostro proposito in questo articolo non è quello di esaminare dei progetti politici, che possano aver di mira, anche lontanamente, un ideale di cristianità, bensì solamente quello di esaminare come il cattolicesimo oggi, immerso in una situazione d’ultralaicismo, consideri o piuttosto ignori la dottrina di Cristo Re. Per cogliere il formidabile iato storico cui ciò è da raffrontare, si può considerare il simbolo espresso nel nartece della basilica di san Pietro a Roma, per la presenza, a destra ed a sinistra, delle statue a cavallo di due «vescovi esterni», Costantino e Carlo Magno[1], manifestando così quanto la Chiesa si aspettasse dai poteri civili cristiani: ch’essi la proteggessero e che in qualche modo introducessero le proprie genti verso il regno eterno; e, di contro, il rifiuto simbolico espresso dal presidente Chirac a Roma il 29 ottobre 2004, quello d’inserire nella costituzione europea un riferimento, benché tanto modesto da suscitar quasi vergogna, alle sue «radici cristiane».
L’impossibile laicità
Rémi Brague nella sua opera Sur la religione [Sulla religione][2], che certamente apporta elementi estremamente opportuni nel dibattito sulla presenza dilagante dell’islam, esprime in fondo, in modo piuttosto radicale, la negazione, divenuta comune, della dottrina di Cristo Re, dottrina che ritiene non abbia mai avuto consistenza reale. Secondo lui, «Chiesa e Stato non sono mai stati separati, in quanto non sono mai stati uniti», per cui suppone che lo Stato sia per sua natura neutro. Quindi egli riprende in buona parte il termine di «separazione» dal titolo della legge del 1905, che abrogava le disposizioni del concordato del 1801[3].
Eppure i poteri religioso e civile sono inseparabili e distinti, come il naturale lo è rispetto al soprannaturale, in quanto l’uno e l’altro esercitano un’influenza globale sui medesimi individui, che non sono, in modo schizofrenico, da una parte spirituali e dall’altra temporali, più precisamente politici, trattandosi, come dice Aristotele[4], di esseri politici. Poteri inseparabili e distinti e fino ad un certo punto autonomi[5] – a differenza della fusione indistinta che predica l’islam.
Del resto, rendendo a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, l’uomo in entrambi i casi obbedisce ad un potere, che giunge da Dio stesso (Rm13, 1), nell’ordine naturale per il governo della Città e nell’ordine soprannaturale per il governo della Chiesa. Ma Cesare (i detentori del potere civile), ad immagine del padre di famiglia, non potrebbe restare neutro, ha dei doveri religiosi come padre della Città[6] ed, in quanto tale, deve creare tutte le condizioni favorevoli, affinché coloro che gli sono stati affidati s’incamminino liberamente lungo la via della salvezza eterna. Leone XIII, nell’Immortale Dei del primo novembre 1885, spiega che l’uomo, destinato da Dio alla beatitudine eterna, che la Chiesa gli dona i mezzi per ottenere, ha comunque estremo bisogno della Città terrena, per giungere alla perfezione. È in effetti la funzione propria della società civile (nella misura in cui essa cerchi di perseguire il fine suo proprio, vale a dire regolare le realtà umane secondo la legge di Dio) ovvero quella di condurre i membri della Città a vivere sulla terra «un’esistenza calma e pacifica» (I Tm2,2), procurando loro il bene della pace, il rispetto di ciò che è giusto, il contesto di una vita onesta. Quando, invece, le istituzioni non fanno riferimento alla legge di Cristo, è la salvezza di molti ad essere in pericolo. Ed ancor peggio è quando queste istituzioni si siano date una struttura laica, ostile o quanto meno estranea per natura alla legge di Cristo.
Questa laicità dello Stato sembra oggi irreversibile[7] a tal punto che le menti meglio intenzionate giungono a difendere la libertà del cattolicesimo in nome della laicità, precisando di riferirsi ad una «buona» laicità, come Patrick Buisson, che ha ispirato a Nicolas Sarkozy il concetto di «laicità positiva» nel corso del suo discorso al Palazzo del Laterano del 20 dicembre 2007. Ha ripreso i termini di Benedetto XVI, che in un messaggio del 17 ottobre 2005 auspicava a Marcello Pera, presidente del Senato italiano, «uno Stato sanamente laico», che organizzi «una laicità positiva, capace di garantire a tutti i cittadini il diritto di vivere la propria fede religiosa in autentica libertà»[8].
La modernità come cristianità inversa
In realtà, la modernità applicata alla società ed alla religione:
1) vuole uno Stato neutro in materia religiosa, laico, cioè «tecnicamente» ateo. Questa neutralità laica, generata dalla rivoluzione francese, è così contraria alla natura che gli Stati sorti dalle rivoluzioni anglo-sassoni hanno a lungo cercato degli accomodamenti (chiese di Stato, invocazione di Dio nella costituzione) in definitiva illusori da quando il diritto civile è stato sottomesso al relativismo del contratto sociale.
2) riduce la Chiesa, nel quadro della laicità, ad un’associazione spirituale o filosofica tra le altre[9], nel migliore dei casi la prima di queste associazioni, nel caso in cui la religione dei cattolici corrisponda ancora a quella della maggioranza dei cittadini, secondo quanto constatava il Concordato firmato tra Bonaparte e la Santa Sede[10].
Gli Stati nel periodo antecedente la modernità politica, anche quando non fossero cattolici, assicuravano le condizioni civili per la vita religiosa. Le strutture, che ne han preso il posto, ossia i moderni Stati laici, inseriti nel complesso groviglio dei poteri economici e sovrastatali atei tanto quanto loro, sono portati ad organizzare essi stessi la vita civile della Chiesa, essendo nell’ordine delle cose. Lo fanno in modo tirannico, con maggiore o minore violenza. Quanto alla parola della Chiesa, essa viene solamente ammessa – ed anche con riserva – e solo per i cattolici, come un regolamento associativo che si applichi unicamente ad intra. Il regno di Cristo non è autorizzato ad estendersi, se non nel segreto dell’anima e del cuore dei credenti e d’essi soli, come se tutti gli uomini non avessero la vocazione a divenire discepoli di Cristo[11].
Ma c’è di più. In realtà, tale nuova configurazione rivolta come un guanto una situazione, che fu cristiana. Lo Stato moderno, quello nato dalla Rivoluzione, si pone al di sopra delle religioni e quindi della religione di Cristo. È quanto ha affermato, in modo tanto crudo quanto sciocco nella forma, Gérald Darmanin, ministro dell’Interno francese, il primo febbraio 2021, su France-Inter: «Noi non possiamo più discutere con gente, che si rifiuta di scrivere nero su bianco d’essere perfettamente compatibile con le leggi della Repubblica e che la legge della Repubblica è superiore alla legge di Dio». Ciò che riguardava l’islam è ricaduto addosso al cattolicesimo. Lo Stato moderno sta prendendo il posto della Chiesa, non solamente perché è il solo ad organizzare i riti sociali pubblici, ma soprattutto perché la soppianta a proprio vantaggio negli ambiti in cui la sua parola, porta in nome di Cristo, debba legittimamente intervenire a beneficio della società.
Un cattolicesimo dimissionario
Ciò che si definisce «la crisi sanitaria» ha permesso di constatare sino a che punto fosse profonda l’adesione del cattolicesimo alle libertà moderne. Nel mondo intero, con diversi gradi e varianti, ma anche qualche bella eccezione, gli episcopati nazionali si sono sottomessi alle direttive statali concernenti l’esercizio del culto, senza difendere il principio della propria libertà intrinseca (libera poi di combinarla, in nome del bene comune, con le regole di prudenza sanitaria). In Francia, in Italia ed in altri Paesi i vescovi hanno addirittura anticipato le misure governative di restrizione o d’interdizione del culto pubblico, arrivando persino a proibire di propria iniziativa la celebrazione dei battesimi e dei matrimoni!
Non è venuto in mente ad alcun Successore degli Apostoli d’avere un potere proprio, totalmente indipendente dal potere di Cesare, ed a fortiori dal «mostro freddo» uscito dalla Rivoluzione, per ciò che concerne il dominio spirituale, e che spettava a ciascun vescovo ed a nessun altro fissare le regole dell’esercizio del culto, tenendo beninteso conto delle altre necessità – sanitarie, nel caso specifico – relative al bene della Città. Supponendo anche che l’epidemia di Covid divenisse grave e drammatica tanto quella della peste nera nel XIV secolo, i vescovi potrebbero trovarsi a dover decidere, su consiglio delle autorità pubbliche, d’interrompere temporaneamente il culto pubblico. Ma solo loro avrebbero il diritto di farlo.
Le «aperture» del concilio Vaticano II sono la sorgente «magisteriale» di quest’attitudine dimissionaria, benché essa sia esistita in pratica già molto prima ed in molti modi. Quando la dichiarazione Dignitatis humanæ sulla libertà religiosa al n. 2 affermava che «tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, secondo la sua coscienza, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente [è nostro il corsivo], in forma individuale o associata», essa rinunciava all’ideale di nazione «battezzata», anche quando questa nazione, per evitare mali peggiori, applichi la tolleranza alla diffusione di altri culti e di altre dottrine[12]. L’«ipotesi»[13], all’epoca dell’ultimo concilio, è divenuta «tesi», un notevole arretramento dal punto di vista della confessione della fede, essendo stato abbandonato il principio più generale dei diritti della Chiesa. Per questo mons. de Moulins-Beaufort, presidente della CEF, ha potuto scrivere in una sua lettera pubblica al Presidente Macron: «Noi non abbiamo mai reclamato un privilegio o una deroga dalle regole comuni. Noi abbiamo semplicemente chiesto che le regole comuni a tutta la società si applicassero a tutti i culti». Ed ha continuato: «Esso [lo Stato] deve fare attenzione a valorizzare i corpi intermedi, ricordando loro le proprie responsabilità»[14]. La Sposa di Cristo si colloca tra i «corpi intermedi» della società nazionale.
Mantenere le «pretese» della Chiesa
Avevamo già accennato, il 19 maggio 2020 (https://www.resnovae.fr/la-liberte-intrinseque-du-culte-divin/), le osservazioni pertinenti espresse dal politologo Olivier Roy in un articolo sul Nouvel Observateur dell’8 maggio 2020: «Anche se la Chiesa ha avuto grande consapevolezza del suo esser minoranza nella società, si è creduta immune dalla crescente religiofobia. Oggi le si ritorce contro: la polizia rintraccia le messe “clandestine”, evidentemente denunciate dai vicini, come se si trattasse di “volgari musulmani”! Essa ha creduto che la sua lealtà verso la laicità repubblicana le mantenesse quel primato che persino il protocollo repubblicano le aveva fin qui accordato […] Come ha reagito la Chiesa? Ebbene, giustamente presentandosi come una comunità particolare, quella dei consumatori di beni sacri: “noi vogliamo la messa, la confessione, l’ostia”. Fa dunque appello alla libertà religiosa iscritta nella legge e nella costituzione: diritto non soltanto di credo e d’opinione, bensì anche di pratica in un quadro collettivo. Ma, richiamandosi ai Diritti dell’Uomo ed al Diritto delle minoranze, essa conferisce validità giuridica non solo alla propria marginalizzazione, ma anche alla propria “auto-secolarizzazione”».
Al contrario, l’affermazione teorica dei diritti della Chiesa è oggi della massima importanza. Come un «pretendente» ad una corona, da cui è stato escluso – ed è già tanto se vi siano oggi dei principi, che vi agognino davvero -, la Chiesa deve dimostrare di non voler giammai rinunciare ai propri diritti originari, pronta a cogliere ogni occasione per farli rispettare. Facendo quanto sia concretamente possibile per esercitarli, approfittando della libertà concessale da un apparato politico che le ignora, essa non deve mai rinnegare la totalità dei principi – l’affermazione della propria libertà di Sposa di Cristo -, richiamandoli opportunamente, specialmente esortando i cattolici a guardarsi dalla tentazione inerente l’uso «tecnico» delle libertà moderne, che è quella di aderire poco o tanto a queste libertà[15].
Claude Barthe
[1] Nella sua Storia ecclesiastica, Eusebio di Cesarea riferisce che Costantino dice ai vescovi ch’egli convoca al concilio di Nicea ch’essi sono istituiti «vescovi per l’interno della Chiesa» e che lui stesso lo è «per le cose esterne», le cure esterne, la sua protezione e quella della fede.
[2] Flammarion, 2018.
[3] Ciò che fu respinto da Pio X nell’enciclica Vehementer nos dell’11 febbraio 1906: «Che sia necessario separare lo Stato dalla Chiesa è tesi assolutamente falsa, un errore estremamente pernicioso. Basata, in effetti, sul principio per il quale lo Stato non deve riconoscere alcun culto religioso, tale tesi rappresenta prima di tutto un gravissimo insulto a Dio, poiché il creatore dell’uomo è anche Colui che ha fondato le società umane ed Egli le conserva in vita esattamente come sostiene noi».
[4] È questa distinzione nell’unione che Pio XII ha tradotto in modo molto audace per non dire imprudente, benché non invocasse la libertà religiosa, col termine di «sana laicità»: «Come se una sì legittima e sana laicità dello Stato non fosse uno dei principi della dottrina cattolica; come se non fosse una tradizione della Chiesa sforzarsi continuamente di mantenere i due Poteri distinti, benché sempre uniti, secondo giusti principi» (Discorso del 23 marzo 1958).
[5] Cfr. la «giusta autonomia delle realtà terrestri» richiamata dal n. 36 della Gaudium et spes.
[6] «I governanti e i magistrati hanno l’obbligo, tanto quanto gli individui, di rendere a Cristo un culto pubblico e di obbedire alle sue leggi. I capi della società civile, dal canto loro, si ricorderanno del giudizio finale, quando Cristo accuserà coloro che l’hanno espulso dalla vita pubblica» (Pio XI, Quas primas). Ciò viene espresso nell’inno Te sæculorum Principem, dai vespri di Cristo Re nella liturgia tradizionale: «Possano i capi dei popoli renderTi culto pubblico». L’insegnamento post-conciliare pone al contrario «la non-confessionalità dello Stato, che è una non-ingerenza del potere civile nella vita della Chiesa» (Giovanni Paolo II, Lettera ai vescovi di Francia dell’11 febbraio 2005, in occasione del centenario della legge del 1905).
[7] «La confessionalità dello Stato non è più desiderata [dalla Dignitatis humanæ], essa è tollerata» (Emmanuel Tawil, «Laïcité et liberté de l’Église» [«Laicità e libertà della Chiesa»], Artège, 2013, p. 98).
[8] «Laicità positiva», «laicità placata» o ancora «laicità di libertà»: cfr. mons. Valentin, vescovo ausiliare di Versailles, Famille chrétienne [Famiglia Cristiana], 27 gennaio 2021, e mons. de Moulins-Beaufort, presidente della Conferenza episcopale, a François de Rugy: «I cattolici hanno avuto bisogno di tempo per comprendere che questo regime [la legge di Separazione] garantiva effettivamente la loro libertà».
[9] «La “laicità di Stato” è in realtà la “laicità della Chiesa”, vale a dire la pretesa che quest’ultima rinunci alla sua missione e si accontenti di presentare il suo “prodotto” (semplice opzione tra altre) nel rispetto delle regole del “mercato” (Miguel Ayuso Torres, «Les conseéquences politico-juridiques d’une nouvelle orientation» [«Le conseguenze politico-giuridiche di un nuovo orientamento»] in Église et politique. Changer de paradigme [Chiesa e politica. Cambiare paradigma], a cura di Bernard Dumont, Miguel Ayuso, Danilo Castellano, Artège, 2013, pp. 110-111.
[10] La Separazione del 1905 non fu, in effetti, che una nuova tappa della disgiunzione con la Chiesa, iniziata con la Rivoluzione e considerevolmente accelerata con la III Repubblica.
[11] «L’impero di Gesù Cristo è, in tutta verità, l’universalità del genere umano» (Leone XIII, Annum sacrum del 25 maggio 1899).
[12] San Tommaso, Somma teologica, IIa IIæ, q. 10, a. 11. Pio XII, discorso Ci riesce del 6 dicembre 1953 ai giuristi cattolici: «In primo luogo: ciò che non risponde alla verità ed alla legge morale non ha oggettivamente alcun diritto all’esistenza, né alla propaganda, né all’azione. Secondo: il fatto di non impedirlo per mezzo di leggi dello Stato e di disposizioni coercitive non può giustificarsi nemmeno nell’interesse di un bene superiore e più vasto».
[13] Vedere nota 15.
[14] Le matin sème ton grain [Il mattino semina il tuo grano] Bayard, Cerf, Mame, 2020, pp. 41, 46.
[15] Poiché bisogna essere molto prudenti nell’utilizzo della distinzione tra l’ideale da mantenere in principio e ciò che è attualmente possibile realizzare, distinzione tra «tesi» e «ipotesi» fatta da La Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti romani, il 2 ottobre 1863, nel dar conto del discorso pronunciato da Charles de Montalembert al Congresso di Malines: le libertà moderne o «principi dell’89» sono inammissibili per un cattolico (tesi), ma vi sono situazioni nelle quali i cattolici devono accomodarle per il servizio della religione (ipotesi). Se non fosse che l’articolo anonimo de La Civiltà Cattolica, nel suo desiderio di risparmiare Montalembert, arrivava a dire che, in questo caso, «i cattolici possono amarle [le libertà moderne!] e difenderle».