Intervista a mons. Viganò sulla liturgia del Vaticano II
Mons. Carlo Maria Viganò, che fu nunzio apostolico negli Stati Uniti, è divenuto noto per la sua vigorosa critica al pontificato bergogliano e poi per lo sviluppo di una riflessione critica non meno forte circa il concilio Vaticano II. Ha risposto volentieri alle nostre domande sul tema della nuova liturgia, in modo abbastanza «spiazzante» (anche per noi, poiché attacca qui un processo di «riforma della riforma», che noi difendiamo). Siamo molto felici di offrire ai nostri lettori questo intervento al fine di alimentare il dibattito e la riflessione.
L’abbé Claude Barthe – Vostra Eccellenza ha avuto occasione di parlare di «azioni rivoluzionarie» a proposito della realizzazione della nuova liturgia, dopo il Concilio Vaticano II. Potrebbe precisare il Suo pensiero?
Mgr Carlo Maria Viganò – Anzitutto, occorre aver ben chiaro che il Concilio Vaticano II è stato concepito come evento in se stesso rivoluzionario. Non mi riferisco ovviamente alle buone intenzioni di quanti hanno collaborato alla stesura degli schemi preparatori; parlo invece dei Novatori che hanno respinto quegli schemi assieme alla condanna del Comunismo che il Concilio avrebbe dovuto pronunciare, come auspicato da gran parte dell’episcopato mondiale. Ora, se il Vaticano II fu un atto rivoluzionario sia per le modalità in cui fu condotto sia per i documenti che promulgò, è logico e lecito pensare che anche la sua liturgia risenta di questa impostazione ideologica, soprattutto tenendo presente che essa costituisce il principale mezzo di catechizzazione dei fedeli e del Clero. Non è un caso che Lutero e gli altri eretici Protestanti e Anglicani abbiano messo mano alla liturgia come metodo principale per diffondere i loro errori tra i fedeli.
Fatta questa premessa, troviamo conferma del nostro legittimo sospetto anche nel considerare chi furono gli artefici di quella liturgia: prelati spesso in sospetto di appartenenza alla Massoneria, notoriamente progressisti, e che già con il Movimento liturgico degli anni Venti e Trenta avevano iniziato ad insinuare idee più che discutibili e a diffondere pratiche che risentivano dell’archeologismo, poi condannato da Pio XII nell’Enciclica Mediator Dei. L’altare versus populum non fu un’invenzione del Vaticano II, ma dei liturgisti che al Concilio lo resero praticamente obbligatorio, dopo averlo introdotto decenni prima come deroga col pretesto di un presunto ritorno all’antichità. Lo stesso dicasi per la cosiddetta “casula gotica” nelle forme che hanno preceduto il Concilio, soprattutto in Francia, diventata quella specie di poncho che dopo il Concilio ci è stato spacciato come recupero della forma originale è un falso storico oltre che liturgico. Con questi esempi voglio evidenziare che ben prima del Vaticano II c’erano forze rivoluzionarie infiltrate nella Chiesa, pronte a rendere definitive quelle innovazioni introdotte ad experimentum e che comunque erano diventate di prassi, soprattutto nei Paesi storicamente meno inclini ad adeguarsi alla romanitas.
Una volta compreso che la liturgia è espressione di una specifica impostazione dottrinale – che con il Novus Ordo è diventata anche ideologica – e che di questa impostazione erano intrisi i liturgisti che la concepirono, dobbiamo analizzare il corpus liturgicum conciliare per trovare la conferma della sua indole rivoluzionaria. Aldilà dei testi e delle rubriche cerimoniali, quello che rende inequivocabilmente rivoluzionario il rito riformato è l’averlo reso plasmabile a seconda del celebrante e della comunità, sulla base di una adattabilità completamente sconosciuta alla mens liturgica romana. L’arbitrarietà delle innovazioni è parte integrante della liturgia riformata, i cui libri liturgici – ad iniziare dal Missale Romanum di Paolo VI – sono pensati come un brogliaccio, un canovaccio alla mercé di attori più o meno talentuosi alla ricerca del plauso del pubblico. L’applauso dei fedeli, introdotto pur abusivamente proprio con il Novus Ordo, è l’espressione di un consenso che è parte essenziale del rito fattosi spettacolo. D’altra parte, nelle società antiche il teatro ha sempre avuto una connotazione liturgica, ed è significativo che la chiesa conciliare abbia voluto riesumare questa visione pagana invertendola, ossia dando una connotazione teatrale al rito liturgico.
Chi pensa che l’Editio typica in lingua latina corrisponda al rito che si sarebbe dovuto celebrare dopo il Concilio pecca di ingenuità oltre che di ignoranza: nulla di quel libro liturgico era pensato per essere realmente destinato all’uso quotidiano dei sacerdoti, ad iniziare dalla pietosa veste grafica, chiaramente trascurata proprio per la consapevolezza che praticamente nessuno avrebbe mai celebrato il Novus Ordo in latino. Le stesse cerimonie papali in cui si utilizzò il Missale Romanum di Paolo VI derogavano alle rubriche introducendo letture in lingua vernacolare, cerimonie non previste, funzioni riservate ai chierici svolte da laici e anche da donne. Questo, a mio parere, conferma l’anima rivoluzionaria del Concilio e del rito ad esso ispirato.
L’abbé Claude Barthe – La riforma liturgica, che è iniziata nel 1964 e ha portato ad un nuovo Messale nel 1969, può sembrare più radicale di quanto non fosse il suo programma, la Costituzione Sacrosanctum Concilium. Pensa che il Consilium di Mons. Bugnini abbia tradito il Vaticano II, come affermano alcuni, o che lo abbia solo sviluppato, come dicono altri?
Mgr Carlo Maria Viganò – Mons. Annibale Bugnini fu tra i collaboratori alla stesura dell’Ordo Hebdomadae Sanctae instauratus, promulgato durante il Pontificato di Pio XII. Le gravi deformazioni del nuovo Messale sono contenute in nuce nel rito della Settimana Santa, a dimostrazione che il piano di demolizione era già iniziato. Non vi è quindi alcun tradimento del Concilio, tant’è vero che nessuno dei suoi artefici ha mai considerato la riforma liturgica incoerente con la mens di Sacrosanctum Concilium. Uno studio attento della genesi dell’Ordo Hebdomadae Sanctae instauratus permette di comprendere che le istanze dei Novatori furono accolte solo in parte, ma vennero riproposte col Novus Ordo montiniano.
Va comunque ribadito con chiarezza che, a differenza di tutti i Concili Ecumenici, questo Concilio utilizzò deliberatamente la propria autorità per sdoganare un sistematico tradimento della Fede e della Morale, perseguito per via pastorale, disciplinare e liturgica. I Messali di transizione tra le Rubriche del 1962 e l’Editio typica del 1970 e quella immediatamente successiva – l’Editio typica altera del 1975 – dimostrano come si sia proceduto per piccoli passi, abituando Clero e fedeli alla provvisorietà del rito, alla continua innovazione, alla progressiva perdita di tanti elementi che inizialmente rendevano il Novus Ordo più vicino all’ultimo Missale Romanum di Giovanni XXIII. Penso ad esempio alla recita submissa voce del Canone Romano in latino, con il suo Offertorio sacrificale e il Veni, Sanctificator, che nel corso degli adattamenti portò alla recita ad alta voce, con l’Offertorio talmudico e la soppressione dell’invocazione dello Spirito Santo.
Chi preparò i documenti conciliari da far approvare ai Padri agì con lo stesso dolo che adottarono gli estensori della riforma liturgica, sapendo che questi avrebbero interpretato in modo cattolico testi equivoci, mentre chi doveva divulgarli e utilizzarli li avrebbe interpretati in tutti i sensi fuorché in quello.
In realtà, questo concetto trova conferma nella prassi di tutti i giorni. Avete mai visto un sacerdote che celebri il Novus Ordo con l’altare rivolto ad oriente, interamente in latino, indossando la pianeta romana e dando la Comunione alla balaustra, senza che questo susciti le ire dell’Ordinario e dei confratelli anche se, a rigore, questo modo di celebrare sarebbe perfettamente legittimo? Chi ci ha provato – certamente in buona fede – è stato trattato peggio di chi abitualmente celebra la Messa tridentina. Questo dimostra che quella continuità auspicata nell’ermeneutica del Concilio non esiste, e che la rottura con la Chiesa preconciliare è la norma alla quale ci si deve conformare, con buona pace dei conservatori.
Faccio infine notare che questa consapevolezza dell’incompatibilità dottrinale dell’antico rito con l’ideologia del Vaticano II è rivendicata da sedicenti teologi e intellettuali progressisti, per i quali si può anche tollerare la «forma straordinaria» del rito, a patto che non se ne adotti anche l’intero impianto teologico che essa implica. Per questo la liturgia delle comunità Summorum Pontificum è tollerata, a patto che nella predicazione e nella catechesi ci si guardi bene dal criticare il Vaticano II o la nuova Messa.
L’abbé Claude Barthe – Tra le critiche che spesso vengono fatte al Novus Ordo Missæ, quale Le sembra la più rilevante?
Mgr Carlo Maria Viganò – La critica che ha maggiore fondatezza risiede nell’aver voluto inventare una liturgia a proprio uso e consumo, abbandonando il rito bimillenario nato con gli Apostoli e sviluppatosi armoniosamente attraverso i secoli. La liturgia riformata – come qualsiasi studioso competente sa bene – è il frutto di un compromesso ideologico tra la lex orandi cattolica e le istanze ereticali dei Protestanti e dei Luterani. Siccome la Fede della Chiesa si esprime nel culto pubblico, era indispensabile che la liturgia si adeguasse al nuovo modo di credere, indebolendo o negando quelle verità considerate «scomode» per il perseguimento del dialogo ecumenico.
Una riforma che avesse voluto semplicemente sfrondare alcuni riti che la sensibilità moderna non sapeva più comprendere, avrebbe potuto tranquillamente evitare di ripetere pedissequamente quanto fecero Lutero ai tempi della Pseudoriforma e Cranmer dopo lo scisma anglicano: il solo aver fatto proprie le innovazioni con cui gli eretici rifiutavano alcuni punti del dogma cattolico è una inappellabile dimostrazione di subalternità dei Pastori al consenso di chi è fuori della Chiesa, in danno al gregge che il Signore ha loro affidato. Immaginate cosa avrebbe pensato uno dei Martiri del Calvinismo o della furia di Re Giacomo al vedere Papi, Cardinali e Vescovi usare un tavolo al posto dell’altare che costò loro la vita; e quale rispetto può nutrire un eretico nei confronti dell’odiata Babilonia romana, tutta presa a scimmiottare goffamente quel che i Riformati avevano fatto quattro secoli prima, forse in modo più decoroso. Non dimentichiamo che le eresie liturgiche di Lutero erano veicolate da corali di Bach, mentre le celebrazioni della chiesa conciliare sono accompagnate da composizioni di una bruttezza inaudita. Il cedimento liturgico ha rivelato un cedimento dottrinale, umiliando la Santa Chiesa per sola smania di compiacere la mentalità del mondo.
L’abbé Claude Barthe – Come spiegare il fallimento di Benedetto XVI, del Cardinale Sarah e di altri fautori di un progressivo «ritorno liturgico» tramite la celebrazione ad oriente, la reintroduzione delle preghiere dell’Offertorio, la distribuzione della comunione in bocca?
Mgr Carlo Maria Viganò – Se un funzionario vaticano desse ordine di decorare la Sala Nervi con stucchi ed affreschi, sostituendo l’orribile scultura della Resurrezione che vi campeggia con una prospettiva barocca, lo si considererebbe un eccentrico, soprattutto quando a pochi passi c’è la Basilica di San Pietro. La stessa cosa, a mio parere, vale per i tentativi di rendere presentabile la liturgia riformata con operazioni di maquillage oggettivamente inutili: a che serve celebrare il Novus Ordo verso oriente, cambiando l’Offertorio e dando la Comunione in bocca, quando c’è la Messa tridentina che lo prevede già e da sempre?
Questo «ritorno liturgico» parte dagli stessi erronei presupposti che animarono la riforma conciliare: modificare a proprio piacimento la liturgia, ora stravolgendo il venerando rito antico in senso moderno, ora imbellettando il rito riformato per farlo sembrare quello che non è e non vuole essere. Nel primo caso obbligheremmo una regina ad indossare gli zoccoli e un abito di cenci, nel secondo avremmo la popolana che porta il diadema regale su una capigliatura arruffata, o che siede in trono con un cappello di paglia.
Credo che dietro questi tentativi – apparentemente mossi da pie intenzioni – si celi un dato che nessuno di questi Prelati osa confessare: il fallimento del Concilio ed ancor più della sua liturgia. Tornare al rito antico archiviando definitivamente lo squallore del Novus Ordo richiederebbe una grande umiltà, perché chi oggi vorrebbe salvarlo dal naufragio, ieri era tra i più entusiastici fautori della riforma liturgica, e del Vaticano II con essa.
Mi chiedo: se Paolo VI non si è fatto problemi ad abolire temerariamente da un giorno all’altro la liturgia tridentina sostituendola con raffazzonamenti del Book of Common Prayer, e ha imposto questo nuovo rito nonostante le proteste di chierici e laici; per quale motivo dovremmo noi oggi usare più riguardo per ripristinare al posto d’onore il Rito Romano Antico, proibendo la celebrazione del Novus Ordo? Perché tanta delicatezza d’animo oggi, e tanta spietata furia iconoclasta ieri? E perché questa operazione di chirurgia estetica, se non per tenere insieme l’ultimo orpello conciliare dandogli l’aspetto di ciò che non voleva essere?
Il prossimo Papa dovrà ripristinare tutti i Libri liturgici precedenti alla riforma conciliare e bandire dalle chiese cattoliche la sua indecorosa parodia, alla cui realizzazione collaborarono modernisti notori ed eretici.
L’abbé Claude Barthe – Papa Francesco, in un’intervista concessa nel 2013 a dei periodici gesuiti, menzionava la riforma liturgica come un frutto esemplare del Concilio: «Il Vaticano II fu una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea»). Eppure papa Bergoglio fa dei favori alla Fraternità San Pio X. Crede che il problema liturgico lo interessi?
Mgr Carlo Maria Viganò – Non credo che Bergoglio abbia alcun interesse per la liturgia tout court, e a fortiori per quella tridentina, che gli è aliena e invisa come qualsiasi cosa ricordi anche lontanamente alcunché di cattolico. Il suo è un approccio politico: tollera le comunità Ecclesia Dei perché tengono lontano dalle parrocchie i conservatori, ed allo stesso tempo egli mantiene il controllo su di esse, costringendole a limitare il proprio dissenso al solo piano liturgico, mentre si assicura la loro fedeltà all’ideologia conciliare.
Nei riguardi della Fraternità San Pio X assistiamo ad un’operazione più sottile: Bergoglio mantiene relazioni di «buon vicinato», e pur riconoscendo ai suoi Superiori alcune prerogative dimostrando che li considera membra vive della Chiesa, dall’altra parte potrebbe voler barattare la loro completa regolarizzazione canonica con un’accettazione del «magistero conciliare». È evidente che si tratta di una trappola insidiosa: una volta siglato un accordo con la Santa Sede, l’indipendenza di cui la Fraternità gode in virtù della propria posizione di non completa regolarità verrebbe meno, e con essa anche l’indipendenza economica. Non dimentichiamo che la Fraternità dispone di beni e risorse che garantiscono il sostentamento e l’assistenza previdenziale per i propri membri: in un momento di gravissima crisi finanziaria del Vaticano, quei beni fanno certamente gola a molti, come abbiamo visto in altri casi, ad iniziare dai Francescani dell’Immacolata e dalla persecuzione di padre Mannelli.
L’abbé Claude Barthe – Ritiene che lo status protettore (dipendenza dalla Congregazione della Fede e non dalla Congregazione dei Religiosi) voluto da Joseph Ratzinger prima e dopo la sua ascesa al Pontificato per le società di vita apostolica che praticano la Messa tradizionale sia oggi in pericolo?
Mgr Carlo Maria Viganò – La posizione canonica delle comunità Ecclesia Dei è sempre stata a rischio: la loro sopravvivenza è connessa alla loro accettazione almeno implicita della dottrina conciliare e della riforma liturgica. Chi non si adegua, criticando il Vaticano II o rifiutandosi di celebrare o di assistere al rito riformato, si mette ipso facto nella condizione di essere espulso. Gli stessi Superiori di queste società di vita apostolica finiscono per essere i sorveglianti dei propri chierici, ai quali è vivamente consigliato di astenersi dalle critiche e di dare di tanto in tanto segni tangibili di allineamento, ad esempio prendendo parte alle funzioni nella cosiddetta «forma ordinaria». Paradossalmente, in ambito dottrinale ha più libertà di parola un parroco diocesano che non un membro di uno di questi istituti.
Andrebbe detto che, nella mentalità di chi oggi detiene il potere in Vaticano, le eccentricità liturgiche di alcune comunità, lungi dall’incoraggiare la riscoperta del rito tradizionale, ne danno un aspetto elitario e lo confinano al «piccolo mondo antico» in cui i fautori della chiesa bergogliana hanno tutto l’interesse di relegarlo. Rendere «normale» la celebrazione della Messa cattolica – secondo i dettami del Motu Proprio Summorum Pontificum – senza riserve liturgiche e spazi dedicati, darebbe l’impressione che sia davvero possibile ad un fedele qualsiasi assistere alla Messa senza altro titolo di appartenenza se non l’esser Cattolico; viceversa, questo kafkiano castello burocratico costringe tutti i conservatori in un recinto, obbligandoli a seguire le norme di confinamento e a non pretendere nulla di più di quello che la grazia sovrana si degna loro accordare, quasi sempre con la malcelata opposizione del Vescovo diocesano.
L’azione di Bergoglio è oggi palesemente scoperta: l’ultima Enciclica teorizza dottrine eterodosse ed un scandaloso asservimento all’ideologia dominante, profondamente anticattolica e antiumana. In quest’ottica, le questioni sulla sensibilità liturgica di questo o quell’istituto mi paiono francamente trascurabili: non perché la liturgia non sia importante, ma perché una volta che si è disposti a tacere sul fronte dottrinale, le complesse cerimonie del Pontificale finiscono per ridursi ad una manifestazione di estetismo che non rappresenta alcun pericolo concreto per il cerchio magico di Santa Marta.
L’abbé Claude Barthe – La proibizione delle Messe private in San Pietro, l’ispezione di tre giorni della Congregazione del Culto Divino da parte di Mons. Maniago, il fatto che la Costituzione sulla riforma della Curia Prædicate Evangelium porti, a quanto pare, ad un rinforzo dei poteri di controllo del Culto Divino fanno temere una nuova riaffermazione della riforma? O Ella pensa che Francesco non si occupa del problema liturgico?
Mgr Carlo Maria Viganò – Il divieto di celebrare Messe private a San Pietro, nonostante la protesta corale di moltissimi fedeli ed alcuni Prelati contro un vero e proprio abuso da parte della Segreteria di Stato, si protrae in vigore come uno scandalo inaudito: esso costituisce un ballon d’essai col quale tastare il terreno e studiare le reazioni di Prelati, chierici e laici, i quali per il momento si limitano alla mera, compostissima deplorazione verbale, in taluni casi imbarazzante. Come ho già avuto modo di dichiarare*, ritengo che questa interdizione non sia altro che un tentativo di dare parvenza legale ad una prassi ormai consolidata e universale, con la quale si conferma anche l’errore dottrinale che vi sta alla base, ossia il primato della dimensione comunitaria dell’«Eucaristia» intesa come banchetto conviviale ai danni del Santo Sacrificio della Messa celebrato privatamente. Ma qui andiamo a toccare il Vaticano II, che nessuno dei Cardinali che si sono pronunciati sul divieto delle Messe a San Pietro osa mettere minimamente in discussione, anche se esso è chiaramente all’origine dell’illegittima proibizione della Segreteria di Stato.
Per quanto concerne i poteri di controllo della Congregazione per il Culto Divino, in sé potrebbero anche essere considerati in senso positivo, dal momento che la materia liturgica è di stretta competenza della Santa Sede. Ma peccheremmo di ingenuità e di sprovvedutezza se non tenessimo conto del fatto che, qualsiasi norma promulgata dai Novatori, verrà da essi utilizzata per ottenere scopi inconfessati, spesso opposti a quelli dichiarati.