01/02/2022

Se qualcuno dice che la liturgia tridentina è ancora lex orandi: anathema sit!

Par l'abbé Claude Barthe

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La violenza dell’offensiva scatenata da papa Francesco contro la liturgia tradizionale, colpevole di prosperare mentre stride con eccessiva evidenza con la liturgia nuova, ha sorpreso persino gli ambienti progressisti. Questa violenza è prima di tutto nella sostanza, Traditionis custodes annulla Summorum Pontificum su di un punto importante: «Queste due espressioni della lex orandi della Chiesa [il messale promulgato da Paolo VI ed il messale promulgato da Pio V e rieditato da Giovanni XXIII] non inducono alcuna divisione nella lex credendi della Chiesa: sono in effetti due attuazioni dell’unico rito romano», affermava Benedetto XVI. Proprio ciò che Francesco confuta: «I libri liturgici promulgati dai Santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono la sola espressione della lex orandi del Rito Romano».

Ma Traditionis custodes non è un ritorno puro e semplice alla promulgazione della riforma di Paolo VI. Succedendo a Summorum Pontificum, rappresenta un rafforzamento del suo significato.

Richiamo sulla massima Lex orandi, lex credendi

Si prega ciò che si crede, si crede ciò che si prega. Il culto divino, di cui si avvale la Chiesa, è un vettore privilegiato della professione di fede. La famosa massima: lex orandi, lex credendi esprime le relazioni strette del culto divino con le sue preghiere, con i suoi gesti, con i suoi simboli e la professione di fede, il catechismo, il dogma. «Dal modo in cui dobbiamo pregare, impariamo ciò che dobbiamo credere: legem credendi statuat lex supplicandi, che la legge della preghiera regoli la legge della fede», diceva una lettera ai vescovi della Gallia attribuita a papa Celestino I (si basava sulle «formule delle preghiere sacerdotali», le collette della messa, per rispondere all’eresia pelagiana).

Pio XII aveva fatto una precisazione nell’enciclica Mediator Dei, che gli esperti audaci del Movimento liturgico, cui essa era rivolta, avrebbero dovuto prendere sul serio: la liturgia non è un campo di sperimentazione che poi la Chiesa approva, come se il magistero fosse al rimorchio della prassi, ma è prima di tutto perché sottoposta al supremo magistero che la preghiera della Chiesa «fissa» la regola della fede come una delle modalità d’espressione di questo stesso magistero.

Ciò che, in relazione alle modifiche – generalmente molto lente, organiche come si dice – che la Chiesa romana approva nella tale parte del suo culto o di quelle ch’essa apporta promulgando un ufficio o una messa o procedendo alla tal riorganizzazione nel calendario, nel rito, nel breviario, ci assicura che, quanto meno, esse non contengano errori e che possano anche apportare precisazioni dottrinali (l’istituzione della messa e dell’ufficio di Cristo Re da parte di Pio XI).

Per la natura propria di ciò ch’è il magistero – la trasmissione del deposito rivelato -, la formulazione successiva non contraddice mai la precedente, ma la chiarisce. Ad esempio, le parole transustanziato, transustanziazione, canonizzate nel XIII secolo da Innocenzo III e dal IV Concilio Lateranense, esplicitano il termine di conversio del pane e del vino in Corpo e Sangue, utilizzato da sant’Ambrogio nel suo De Sacramentis. Parlare oggi di conversio resta in un ambito perfettamente cattolico; al contrario, attenersi al termine conversio rifiutando quello di transustanziazione sarebbe assai sospetto.

Non si può fare un’analogia rigorosa con la successione delle «formulazioni» del culto, ma il principio è identico: «Così come, in effetti, nessun cattolico serio può, per tornare alle antiche formule impiegate dai primi concili, scartare quelle espressioni della dottrina cristiana che la Chiesa, sotto l’ispirazione e la guida dello Spirito divino, ha nelle epoche più recenti elaborato e decretato dover essere tenute, […] allo stesso modo, quando si tratti di sacra liturgia, chiunque volesse tornare agli antichi riti e costumi, in virtù del mutamento delle circostanze, costui evidentemente non sarebbe per niente mosso da una sollecitudine saggia e giusta[1]».

Così, supponendo di poter conoscere la liturgia della Messa di Roma tal quale fu celebrata nell’Antichità cristiana, diciamo nel IV secolo, prima d’esser arricchita dalle numerose preghiere di glossa fiorite tra il VII e l’XI secolo, non ci si sognerebbe di negare il valore chiarificante apportato da queste preghiere durante la Messa e tali da sottolineare il suo significato, soprattutto quello dell’offerta del sacrificio.

Una liturgia in qualche modo regressiva

Evidentemente non abbiamo fatto l’esempio di cui sopra a caso. Uno dei modi – un modo benevolo – per definire la difficoltà che pone il Vaticano II e la liturgia composta a seguito di tale concilio è dato dal fatto che vi sia stata una sorta di regressione nella formulazione dottrinale e nel suo equivalente cultuale.

L’esempio dottrinale più spesso citato è quello del n. 8 di Lumen Gentium, dove viene affermato che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, mentre Mysticis Corporis di Pio XII sosteneva che la Chiesa di Gesù Cristo è la Chiesa cattolica ed il Corpo mistico di Cristo[2]. Qualora non si voglia parlare di equivocità, si dirà quanto meno d’esser passati dalla chiarezza all’evanescenza.

Nella nuova liturgia della messa, l’indebolimento dell’espressione sacrificale è certamente il punto più grave da rimproverare. Ciò si manifesta, in particolare, con la soppressione delle preghiere dell’offertorio, preghiere di glossa contro cui tuonavano Padre Joseph-André Jungmann, S.J., e l’oratoriano Louis Bouyer, che militavano per la restituzione di un rito romano antico, «puro» rispetto a qualsiasi aggiunta. Esse sono state rimpiazzate da una «preparazione dei doni», fatta di preghiere ispirate da benedizioni ebraiche, che si pensava ingenuamente che Gesù avesse potuto pronunciare durante la Cena.

Certo, non ci sono stati solo ritorni nella riforma, ci sono stati anche dei contributi, il principale dei quali è la maggior partecipazione del popolo da essa attuata, e che Francesco sottolinea nella lettera ai vescovi, che accompagna Traditionis custodes: «Tra i desideri, che i vescovi [del Vaticano II] hanno espresso con maggiore insistenza, emerge quello di una partecipazione piena, cosciente e attiva da parte di tutto il Popolo di Dio alla liturgia». In realtà, la partecipazione dei fedeli era ben nota anche prima del Concilio, per il fatto d’esser stata promossa da Pio X per la messa cantata, da Pio XI e Pio XII per la messa bassa (cfr. l’istruzione de Musica Sacra et Sacra Liturgia del 1958). Sopravvalutare la partecipazione mediante la riforma liturgica è uno degli elementi, e non l’ultimo, che provoca le fragilità, che si possono notare nelle nuove forme liturgiche, in particolare l’immanentizzazione del culto divino, da cui il mistero esce smorzato (celebrazione verso il popolo, toccare l’ostia), la sua laicizzazione (ministeri laici di uomini e donne), la sopravvalutazione ch’esso fa dell’assemblea autocelebrante.

Così la nuova liturgia, manifestando la volontà di tornare alle forme antiche, adattate agli uomini di questo tempo, diffonde un messaggio, per il quale la presenza reale, il sacrificio sacramentale, il sacerdozio gerarchico vengono espressi in maniera più impressionistica d’un tempo.

Il parere di Traditionis custodes

Davanti alla difficoltà del tutto specifica posta da un insegnamento nuovo e da una liturgia nuova, la cui continuità viva con quanto precede non è evidente, Benedetto XVI ha fatto ricorso all’«ermeneutica del rinnovamento nella continuità». Quali che siano i limiti di questo tentativo – in realtà, sono le ultime elaborazioni della Chiesa docente a rappresentare l’ultima parola della tradizione interpretativa[3] -, è applicandolo al culto divino che Benedetto XVI aveva immaginato la coesistenza di quanto aveva qualificato come le due «forme» di un unico rito. A quanti faccian ricorso all’una ed all’altra forma, papa Benedetto ha voluto far capire, su base pressoché volontaristica, che la forma antica non veniva contraddetta dalla nuova: la presenza viva della liturgia antica accanto alla liturgia nuova attestava – affermava nella sua lettera ai vescovi, lettera che accompagnava il suo motu proprio – che «la storia della liturgia è fatta di crescita e di progresso, mai di rottura» e dunque che «quanto era sacro per le generazioni precedenti resta grande e sacro per noi e non può all’improvviso ritrovarsi totalmente vietato o addirittura esser ritenuto nefasto».

Questo riconoscimento inedito, da parte dell’autorità incaricata della liturgia nuova, circa il diritto all’esistenza della liturgia antica intendeva dunque attestare, contro le critiche di molti anziani e contro le affermazioni di molti moderni, che la seconda si poneva in continuità con la prima. Se ne poteva discutere, ma tale era il messaggio di Benedetto: il messale del Vaticano II ed il messale di Trento erano conciliabili. Ciò che Francesco contesta: la liturgia tridentina ormai non saprebbe più esprimere la fede della Chiesa.

Don Claude Barthe


[1] Pio XII, Mediator Dei.
[2] «Ora, per definire, per descrivere questa vera Chiesa di Gesù Cristo – quella che è santa, cattolica, apostolica, romana -, non si può trovare nulla di più bello, nulla di più eccellente, nulla infine di più divino di questa espressione che la designa come “il Corpo mistico di Gesù Cristo”».
[3] Cfr. Il Vaticano II e il Calvario della Chiesa – Res Novae – Perspectives romaines : «Aver bisogno dell’ermeneutica per risolvere il problema della continuità è già un problema in sé. In claris non fit interpretatio, dice una massima ben nota, secondo la quale è perché la continuità ha bisogno d’esser dimostrata dall’interpretazione che occorre un’ermeneutica».