Nessuna restaurazione della liturgia senza una volontà reale
Non sarà possibile alcuna restaurazione della Chiesa, senza prevedere un periodo di transizione liturgica. Oltre al fatto che questo condurrà ad un miglioramento della stessa liturgia in quanto tale, avrà anche delle conseguenze circa la riappropriazione della dottrina e della morale cattolica da parte del popolo cristiano. Non con un colpo di bacchetta magica, bensì per assorbimento permanente. Lex orandi, lex credendi. Sta di fatto che questo sforzo liturgico di vera riforma della Chiesa, sforzo che si inserisce in un’ambizione più ampia, necessita di uomini per compiersi. Preti, vescovi, un papa! Ancora, occorrerà anche che gli artefici di questo «ritorno» abbiano una volontà decisa di compierlo, malgrado tutti gli ostacoli che incontreranno.
Ora, cosa notiamo? Da poco più di quarant’anni tale volontà è mancata agli uomini di Chiesa, anche se avrebbero potuto iniziare questo «ritorno» ed anche se ne parlavano. Più esattamente, si sono contentati di volere – e pure debolmente – un inquadramento della riforma. Benedetto XVI ha teorizzato questo tentativo, che si applica in particolare alla liturgia, qualificandolo come un’«ermeneutica della riforma nella continuità», ciò che si potrebbe anche definire come ermeneutica di conservazione delle conquiste del concilio, in una prospettiva moderata.
La liturgia nuova rettificata da Giovanni Paolo II
È chiaro che Giovanni Paolo II, vigorosamente assistito dal cardinale Joseph Ratzinger, ha voluto imporre una terza via tra la reazione tradizionalista e l’avanzata progressista. Per la liturgia, si trattava allora di attuare un’interpretazione della riforma liturgica cercando di collocarla, in qualche modo, in linea con la tradizione liturgica. La versione ufficiale consisteva dunque nell’affermare che la riforma liturgica costituisse l’ultima tappa di una riforma organica della liturgia romana, analogamente alle riforme anteriori di san Pio X, di Pio XII o di Giovanni XXIII. Una versione ufficiale che tuttavia ha incontrato qualche difficoltà ad entrare nelle menti, tanto abissale sembrava a qualsiasi spettatore onesto il fossato, che separava la liturgia tradizionale da quella nuova, indipendentemente dal fatto ch’egli preferisse l’una o l’altra.
A dire il vero, la difficoltà non giungeva solamente dalla comprensione intellettuale di tali liturgie, bensì dalla stessa prassi di quella nuova. Da qui il moltiplicarsi dei testi pontifici ad un tempo per celebrare la riforma liturgica uscita dal Concilio e per correggerne le interpretazioni errate.
Tuttavia, tale volontà di correggere gli abusi e di dare un’interpretazione corretta della «vera liturgia» scaturita dal Concilio incontrava un primo limite proprio nella prassi liturgica dello stesso papa, in particolare di Giovanni Paolo II. Malgrado tutto, forse sotto l’influenza del suo maestro di cerimonie, mons. Piero Marini, molto bugniniano, il papa della «restaurazione», che era anche il papa di Assisi, ha presieduto Eucarestie, di cui il meno che si possa dire è che si siano allontanate da quell’interpretazione che per di più lo stesso pontefice e gli organi curiali competenti in materia tentavano di far passare. Allo stesso modo, la celebrazione di un rito detto zairese nella basilica di San Pietro non è avvenuta per la prima volta sotto il pontificato di Francesco, bensì sotto quello di Giovanni Paolo II. Bisogna dire che Giovanni Paolo II, che possedeva innegabili doti come attore, si trovava perfettamente a proprio agio nella liturgia nuova, in cui la parte di «recitazione» del celebrante è molto importante. Questa alterazione tra parola e prassi indica già un primo insuccesso nel tentativo d’inscrivere la liturgia riformata – alcuni direbbero «rivoluzionata» – nella Tradizione.
La liturgia nuova “tradizionalizzata”, secondo il sogno di Benedetto XVI
L’interesse di Benedetto XVI per la liturgia e la sua pietà personale, più sensibile ai fasti liturgici, avrebbero potuto modificare le cose stabilmente. Il suo motu proprio Summorum Pontificum ha ridato visibilità alla liturgia tradizionale ed ha riconosciuto come essa non fosse mai stata proibita. Benché in seguito non abbia molto difeso il proprio testo affinché i vescovi lo lasciassero applicare ai parroci, la liturgia tradizionale ne ha beneficiato, dato che dal 2007 al 2017 il numero di messe tradizionali celebrate nel mondo è raddoppiato.
Tuttavia, creando la nozione delle due forme – una ordinaria; l’altra extraordinaria – dello stesso rito romano, Benedetto XVI ha cercato ancora d’inquadrare la liturgia riformata in linea con i libri liturgici precedenti, pur riconoscendo il sussistere di due forme. Nessuno si è lasciato ingannare dalla tattica adottata per far ingoiare il boccone amaro del riconoscimento di un diritto ad esistere da parte della vecchia liturgia.
In effetti, tale coesistenza di «due forme» doveva d’altronde condurre, nelle intenzioni del papa, ad una correzione dell’una con l’altra, operazione denominata «reciproco arricchimento» e che doveva sfociare a lungo andare in una «riforma della riforma» in vista del ritorno ad una forma liturgica unica, iscritta pienamente e realmente nella Tradizione. Così come il conte di Chambord aveva un tempo dichiarato che si dovesse riprendere il movimento riformatore fermato dal 1789, Benedetto XVI intendeva chiaramente riprendere il corso delle riforme organiche, sorvolando sugli anni delle trasgressioni liturgiche, senza negarle. Il successo di questo disegno non fu più felice di quello del successore dei re di Francia.
L’idea del reciproco arricchimento non era completamente nuova in Benedetto XVI. L’aveva già espressa quando era ancora il cardinale Ratzinger in occasione del colloquio liturgico di Fontgombault (2001) ed aveva scatenato la reazione del suo amico Robert Spaemann, che non vedeva davvero in che modo la liturgia antica potesse essere arricchita. In realtà, è essenzialmente la liturgia nuova quella che Benedetto XVI ha voluto «arricchire» ovvero trasformare, ma senza dirlo e soprattutto senza imporlo con atti di governo…
Fatto sta che, durante il suo corto pontificato, Benedetto XVI ha certamente riportato al giusto onore alcuni oggetti liturgici antichi, ma non ha mai celebrato, nemmeno nella festa di san Pio V, secondo l’usus antiquior, pur avendolo riportato in auge con le sue attenzioni, né ha corretto la cosiddetta «forma ordinaria», né ha applicato i pochi elementi da lui stesso un tempo proposti per la «riforma della riforma». Egli si è contentato di dare personalmente la Comunione sulle labbra durante le celebrazioni da lui presiedute.
Ancora una volta – ed in modo più deludente che sotto Giovanni Paolo II, poiché il proposito era più chiaro e le circostanze più favorevoli -, lo stravolgimento tra la parola e la prassi è stata una delle caratteristiche di questo pontificato ed indica in qualche modo il fallimento (come qualificarlo altrimenti?) del conservatorismo liturgico, intendendo con quest’ultimo termine la volontà di mantenere la riforma liturgica, cercando in tutti i modi di conservare il più possibile l’idea di una continuità liturgica, consustanziale ad ogni vera riforma, del volere senza volere veramente, del dire senza fare. Il meno che si possa dire è che Francesco abbia radicalmente posto la parola fine e che, da parte sua, abbia reso conformi parola e prassi.
L’occasione mancata del cardinale Sarah
Oggi il cardinale Sarah sembra essere uno dei migliori esponenti della corrente, che vorrebbe accomodare il nuovo all’antico. Uomo di grande pietà, ed anche di una pietà tutta tradizionale, essendo passato con coraggio attraverso le forche caudine di un potere persecutorio, ratzingeriano dichiarato, è stato comunque nominato al Culto divino nella prima parte del pontificato di Francesco, circondato, questo è vero, da collaboratori, che hanno sistematicamente represso tutti i suoi tentativi di correzione della riforma.
Così ha operato in piena fedeltà sia al papa regnante sia alla benedetta idea di una conciliazione tra il vecchio ed il nuovo rito. Non ha mai smesso dunque di difendere la necessità di rispettare le norme liturgiche, di riportare al giusto onore e di ritrovare il vero senso della liturgia, che consiste nel rendere innanzi tutto e prima di tutto un culto a Dio piuttosto che nell’esprimere le condizioni variabili di un’assemblea, sia pure quella eucaristica. Come non accogliere tale preoccupazione, questo richiamo a tante cose vere e giuste, soprattutto giungendo da un prelato dalla parola spesso forte e che certamente è un autentico santo?
Certo, il cardinale Sarah, come aveva fatto ancor più sovente Joseph Ratzinger quand’era cardinale, ha celebrato più volte secondo l’usus antiquior, rinforzando così con la sua notorietà e la sua esemplare pietà la riabilitazione pratica della messa tradizionale.
Ma il suo tentativo fallito d’esortare a volgere la celebrazione verso il Signore è stato particolarmente deludente, in quanto l’ha lanciato e poi non l’ha sostenuto.
Durante il congresso Sacra Liturgia, tenutosi a Londra nell’aprile 2016, il cardinal Sarah, all’epoca Prefetto della Congregazione per il Culto divino, in presenza di mons. Rey, vescovo di Fréjus-Tolone, ha auspicato un ritorno massiccio della celebrazione ad orientem, suggerendo ai sacerdoti, che lo desiderassero, di cominciare a celebrare in questo modo dalla prima domenica di Avvento 2016.
Ma è stato immediatamente contraddetto dall’arcivescovo di Westminster, il cardinale Nichols, che ha scritto ai preti della sua diocesi, sconsigliando loro di seguire il suo suggerimento. A ciò seguirono un comunicato del direttore della Sala Stampa vaticana, l’11 luglio 2016, in cui si spiegava che «nuove direttive liturgiche (non erano) previste», poi una convocazione del cardinale da parte del papa per un colloquio nel corso del quale sembra che l’argomento sia stato appena sfiorato, ma che è stato considerato dai media come un avvertimento del papa al cardinale.
Ovviamente, essendo stato smorzato l’entusiasmo da tali difficoltà, del resto prevedibili, il cardinale si è astenuto dal mettere in pratica lo stesso invito, che lui stesso aveva rivolto ai preti: durante i suoi numerosi viaggi, anche in circostanze che lo avrebbero permesso senza difficoltà (a Lourdes, dove mons. Brouwet si aspettava un gesto del genere; più recentemente, in una chiesa di Parigi, circondato dai sacerdoti più tradizionali, che speravano in questo incoraggiamento, egli ha celebrato e celebra sempre, costantemente, rivolto verso il popolo. Anche qui, parole ma non gesti.
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Ciò che la storia ha ricordato come riforma gregoriana, dal nome di papa san Gregorio (VII), è in realtà il risultato dell’azione di numerosi pontefici, prima e dopo Gregorio, benché quest’ultimo ne sia stato l’attore principale. Resta il fatto ch’è stata portata avanti da uomini, che hanno voluto riformare la Chiesa e che hanno compiuto i gesti necessari per concretizzarla. Per uscire dal sistema auto-bloccante, incarnato dalla riforma liturgica con effetti ben più ampi del semplice ambito liturgico, i vescovi devono e possono fare il primo passo, il più visibile, il più eloquente, il più simbolico: la celebrazione verso Dio. Così facendo, non soltanto compiranno il primo passo di una riforma, ma onoreranno Dio come devono.
Philippe Maxence