Sull’inculturazione liturgica in un’anti-cultura
L’accelerazione delle evoluzioni culturali e sociali nei Paesi occidentali pone in modo più acuto una questione lacerante dopo la riforma della liturgia: quella, auspicata e persino richiesta dal concilio Vaticano II, della sua inculturazione.
L’impossibile inculturazione in una cultura che cambia
I tentativi sono stati numerosi, già prima del predetto Concilio. Così, nell’ambito dei movimenti di Azione cattolica, prima della seconda guerra mondiale e soprattutto dopo, si sono organizzate processioni d’offertorio, in cui gli strumenti di lavoro così come i loro prodotti venivano presentati assieme al pane e al vino, che avrebbero costituito materia del sacrificio eucaristico. Chiedendosi allora quanto fosse fondato presentare tali oggetti quale materia «associata» al sacrificio, essendone piuttosto i frutti, frutti di una vita cristiana che opera nella creazione e nella società, il meno che si possa dire è che, a prescindere dalla soluzione all’obiezione liturgica e teologica sollevata, tale prassi è stata definitivamente abbandonata. Non ne restano che i disegni dei bambini o, nelle «messe dei popoli», danze e frutti alquanto esotici per un europeo. Si è ben lontani da un’ambiziosa incarnazione della liturgia nella vita moderna, dalla sua inculturazione… Ma, se si fosse andati avanti, che cosa una simile processione, con l’automatizzazione del lavoro, la deindustrializzazione, la terziarizzazione ed attualmente la sua uberizzazione, potrebbe oggi apportare, che rappresenti «il frutto della terra e del lavoro degli uomini»? Il mondo del lavoro è profondamente cambiato e cambia ancora, rendendo illusoria l’idea di trarne una simbologia duratura.
Anche il linguaggio è cambiato e soprattutto, esercitando su di esso la propria influenza, i costumi. A rischio di scioccare qualche lettore, citiamo una riunione di adolescenti, che ridacchiano e che si guardano beffardi, sentendo il prete parlare della «vergine»… Più in profondità e soprattutto a livello istituzionale, il discorso femminista ha portato ad integrare anche nel linguaggio liturgico formule che, se sono più esplicite, sono anche meno eleganti ed appesantiscono una retorica, di cui, nel mondo latino, si lodava in precedenza la delicatezza e la concisione: «fratelli e sorelle… quelle e quelli…», eccetera. Questi due esempi mostrano ciò con cui la celebrazione in lingua vernacolare non può mancare di confrontarsi, poiché, a partire dalle sue parole, viene inevitabilmente e immediatamente interpretata alla luce della lingua parlata qui ed ora. Si può certamente, per ovviare alle difficoltà, passare dalle perifrasi e dalle complessità semantiche alle circonlocuzioni esplicative. Tuttavia, non si annuncia forse come un processo all’infinito e non avviene a detrimento di una lingua liturgica, ch’è stata l’onore della Chiesa latina? D’altronde sta morendo, tale lingua liturgica; non resta che il linguaggio di tutti i giorni, che una certa pastorale esige, poiché «tutti» devono poter comprendere…
L’impossibile inculturazione in una società in decostruzione
Le società moderne e post-moderne, dunque, non sono conformi, in modo ampio e crescente, alla fede ed alla sua espressione liturgica. Questa constatazione è sufficiente, è soddisfacente? Non ci si deve, per mostrare ulteriormente la ruota su cui si trova l’inculturazione della liturgia, chiederci se le nostre società siano semplicemente capaci d’essere luogo di inculturazione?
Prendiamo gli esempi semplici ed eloquenti dell’inginocchiarsi e della Comunione sulla lingua. Sono stati rimpiazzati dallo stare in piedi e dalla Comunione sulla mano: tale è l’atteggiamento dell’uomo moderno, del cristiano adulto, hanno esaltato i cantori di questi cambiamenti.
Chi non vede la scomparsa dell’adorazione, che ne è derivata? Comprendiamo bene di cosa si tratti, partendo da una recente parola papale: papa Francesco, nell’esortazione apostolica Desiderio desideravi, ha denunciato una sacralità estranea al mistero cristiano, che fuorvierebbe. Le ha contrapposto non una mondanità banale, ma l’Incarnazione e la Presenza reale, nonché, per il credente, lo stupore. A dimostrazione di ciò, ha citato la bella esclamazione eucaristica di san Francesco d’Assisi contenente queste parole: «Tutta l’umanità trepidi, l’universo intero tremi ed il cielo esulti, quando sull’altare, nella mano del sacerdote, Cristo, il Figlio del Dio vivente, si rende presente. O altezza ammirabile e degnazione stupenda! O sublime umiltà! O sublimità umile!… Umiliatevi anche voi, affinché veniate esaltati da Lui».
Pertanto, se si ammette assai volentieri che l’omaggio del vassallo dinanzi al signore feudale non sia più attuale, non si può che ritenere – appoggiandosi su tutte le autorità possibili, fino a quella appena menzionata – che l’adorazione sia consustanziale al culto della Chiesa. Essa si esprimeva – e si esprime ancora – esteriormente con l’inginocchiarsi, che può significare anche penitenza. In una società, che sta completando la decostruzione di tutte le autorità, anche di quelle moribonde o evanescenti, in quale realtà o atteggiamento attuale, in quale sentimento comunemente conosciuto ed oggi riconosciuto potrebbe immergere, «inculturare» l’adorazione, l’umiltà, lo stupore del fedele quando «il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, s’umilia al punto da nascondersi, per la nostra salvezza, in una piccola parvenza di pane»? (Francesco d’Assisi di nuovo).
In realtà, in mezzo a tentativi falliti, c’è una dimensione della nostra società, in cui la liturgia riformata si è agevolmente inserita, da cui ha tratto ispirazione: la mentalità democratica. La partecipazione dei fedeli richiesta dal concilio, ma intesa secondo una modalità esteriore e sensibile, ha effettivamente trovato in essa un modello: convivialità sincera o comandata (le messe «festive»), moltiplicazione degli interventi e degli intervenuti, condivisione in piccoli gruppi in sostituzione dell’omelia, adattarsi il più possibile alle caratteristiche dell’uditorio e delle sue presunte aspettative… Forse l’insuccesso in tutti gli altri ambiti spiega perché questa inculturazione sia così diffusa. Gli altri – e più importanti – aspetti del culto s’imbattono in una realtà «culturale» che non si presta assolutamente all’incontro, che non ne è capace, anzi vi si oppone nei suoi principi. Questa stessa unilateralità costringe e devia la preghiera pubblica della Chiesa: spesso – i papi non hanno smesso di denunciarlo, senza grande effetto -, in tali riunioni, poiché l’autocelebrazione della comunità sfida creatività ed emotività, la cerimonia non deriva più veramente dal culto, dalla liturgia, poiché non c’è più né rito, né orientamento a Dio.
L’impossibile inculturazione di una liturgia decostruita
Numerosi sono i sacerdoti ed i fedeli, che storcono il naso di fronte alla democratizzazione del culto. Frequentemente, se non sempre, si rivolgono allora, sia esplicitamente verso il vetus ordo, sia più genericamente verso gli usi ed i costumi antecedenti la riforma, per colmare le lacune ed i silenzi del novus ordo. La marcia verso il mondo moderno e verso l’inculturazione ne viene rallentata o fermata, in base all’entità di questi prestiti.
Questo fatto conduce ad una domanda supplementare rispetto al nostro problema complessivo: inculturazione, sia… ma cosa si vuole inculturare? Quale liturgia? L’ìnculturazione, se se ne ammette la possibilità – e non si potrebbe rifiutarla per principio – implica l’incontro di due organismi, in qualche modo vivi e complessi, frutto di un’elaborazione lenta ed in parte misteriosa, di dottrine e di regole, di costumi e di prassi, di simboli e di usanze, ecc. (una foresta di simboli, secondo il titolo di un’opera di don Barthe); un incontro lento esso stesso, fatto d’aggiustamenti e di trasformazioni reciproche, che la consuetudine approverà o respingerà, che l’autorità permetterà o punirà. C’è bisogno, da una parte e dall’altra, di salute, di vigore,…
Ora, quando il Concilio ha chiesto, in vista di una riforma della liturgia, che si distinguesse tra elementi essenziali, intangibili ed elementi mutevoli, ciò si tradusse in una rapida, molto rapida (in pochi anni) disarticolazione del rito romano antico, sopprimendo cerimonie (trovandosi allora le virtù, che le ordinavano, prive di espressione e di supporto cerimoniale), semplificandone altre, aggiungendone di nuove, che venissero sradicate dall’antichità o create da zero). È stato così proposto un nuovo complesso, in cui in linea di massima si pone una pluralità di scelte, il nuovo ordo, di cui ci si può giustamente domandare se meriti il titolo di ordo, allo stesso modo del vecchio.
Chiariamo la parentesi di cui sopra: si è già parlato di adorazione e umiltà; segnaliamo due altri virtù essenziali del culto, la devozione e la riverenza: la soppressione della precisione delle rubriche concernenti la celebrazione da parte del prete lascia tali virtù senza un supporto concreto e facilmente individuabile; non che questi principi siano assolutamente legati al tal gesto o al tal momento (questa sarebbe una forma di rubricismo), ma l’anima del sacerdote si trovava – si trova – favorita nella sua attenzione e nella sua elevazione da queste indicazioni. Lo stesso vale per il ruolo di coloro che servono, per il ruolo dei fedeli nell’assemblea. Se non si dice nulla, perché, quando e come fare qualcosa? Si finirà per fare solo quello che il cuore ci dice? Non potremmo accontentarci di questo.
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Al termine di questa rapida analisi, la sfida dell’inculturazione, non solamente dal lato di una cultura, che non è più tale, ma anche dal lato di un rito incompleto e fluido, sembra alquanto avventurosa.
Don Jean-Marie Perrot