04/12/2022

Per iniziare la transizione liturgica:
celebrare verso il Signore

Par l'abbé Claude Barthe

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Per un parroco, il fatto di celebrare di nuovo verso il Signore e non più verso il popolo è cosa minima confronto a ciò che sarebbe l’adozione del rito antico da parte di questo sacerdote, eppure è già di per sé enorme. Tutti comprendono in effetti che, facendo così, si tira il filo di un gomitolo, quello della riforma liturgica, che poi si srotolerà per intero.

Ecco perché il rivolgimento della celebrazione è il primo e decisivo atto di ciò che si chiama la riforma della riforma, la quale rappresenta, come abbiamo avuto occasione di dire, un processo di transizione[1]. In un libro di interviste, che abbiamo pubblicato in questa prospettiva nel 1997, Reconstruire la liturgie[2] [Ricostruire la liturgia – NdT], la maggior parte degli intervistati ha detto che, in effetti, la ripresa della celebrazione verso l’Oriente liturgico è il primo passo da compiere[3].

Da chi dovrebbe essere avviato tale processo? Nel lungo periodo, da un papa e dai vescovi, che volessero dedicarsi a tale ricostruzione. In tempi più ravvicinati, da vescovi diocesani o non diocesani, meglio ancora da cardinali, che avvieranno in maniera decisa tale processo, portando con sé – e sostenendo nelle notevoli difficoltà, che incontreranno – il maggior numero possibile di preti di parrocchia.

Un dibattito storico concluso

Gli archeologi s’interrogano circa il posto dell’altare all’interno di un edificio nell’Antichità cristiana. Ma, ovunque si trovasse l’altare, il fatto che la preghiera antica (messa, uffici diversi) sia stata orientata per manifestare l’attesa vigile del ritorno di Cristo alla fine dei tempi è decisamente attestato[4]: «Perché, come la folgore viene da Oriente e brilla fino a Occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo» (Matteo 24, 27).

Joseph Andreas Jungmann, uno dei maggiori protagonisti del Movimento liturgico, aveva anche osservato come, in epoca patristica, la posizione del celebrante rivolta verso est fosse più fortemente comprovata, in Siria ad esempio, laddove la dimensione sacrificale dell’Eucaristia fosse più esplicitamente affermata dai Padri. Ed osservava: «L’affermazione, sovente ripetuta, secondo cui l’altare della Chiesa primitiva presupponesse sempre che il prete fosse rivolto verso il popolo, si rivela essere una leggenda[5]». D’altronde, nella Chiesa anglicana, nel XIX secolo, per un certo numero di membri del Movimento d’Oxford, osserva Uwe Lang, uno dei modi, per restaurare l’eredità cattolica e sottolineare l’espressione del carattere sacrificale dell’Eucaristia, era quello di ritrovare l’orientamento del culto.

Era per rigoroso tradizionalismo che a San Pietro in Roma ed a San Giovanni in Laterano, dove l’abside è a ovest, il papa avesse mantenuto l’abitudine di celebrare verso l’Oriente geografico e non solamente verso quello liturgico, volgendosi quindi verso la navata.

Di fronte al popolo, anticipazione e simbolo della riforma

Si è trattato là, ed in qualche altro luogo, di un versus populum di fatto. Tuttavia, il versus populum intenzionale, apparso nel quadro del Movimento liturgico, sotto il pretesto (errato) di tornare all’antico, ha avuto valore ecumenico. Era in realtà un prestito dal protestantesimo (almeno calvinista, perché il culto luterano era volentieri orientato). Si son viste così svilupparsi esperienze verso il popolo prima della seconda guerra mondiale, su altari allestiti per l’occasione, durante le soste dei pellegrinaggi, nelle attività sul campo dei movimenti giovanili, specialmente nello scoutismo, ma anche in qualche parrocchia «avanzata».

Ben nota è la reazione di Paul Claudel, in un articolo sul Figaro littéraire del 29 gennaio 1955, il quale protestò contro «la pratica sempre più diffusa in Francia di celebrare la messa rivolti verso il pubblico», ciò di cui la parrocchia di San Severino, a Parigi, costituiva un esempio. In occasione dei grandi raduni, come quello della JAC nel 1950, presso il Parco dei Principi, divenne abitudine collocare l’altare al centro dell’assemblea. Allo stesso modo, nella basilica sotterranea di San Pio X, a Lourdes, consacrata nel 1958, l’altare era stato edificato al centro della navata, il che imponeva necessariamente una celebrazione verso il popolo per la metà dei presenti.

Ma è all’inizio degli Anni Sessanta che le celebrazioni verso il popolo sono divenute in Francia, in Germania, in Belgio più numerose. Sono divenute gradualmente quasi universali a partire dal 1964, inizio della riforma liturgica. Si può d’altronde parlare qui di un processo di transizione[6] opposto a quello che stiamo sostenendo. Tanto che i testi, che promulgarono la riforma, non ebbero nemmeno bisogno di richiamare il senso della celebrazione: si dava per acquisito che la nuova messa si celebrasse normalmente verso il popolo.

Ostacoli da rimuovere per un ritorno

Così, anche se, parlando in senso stretto, verso il popolo non è obbligatorio nel quadro della riforma, resta il fatto che, secondo la percezione comune, la messa nuova ha due caratteristiche salienti: è detta in lingua volgare e celebrata verso il popolo. Così, ogni tentativo di tornare, nelle parrocchie, alla celebrazione rivolta verso il Signore, viene immediatamente contrastato con estrema energia dai difensori della riforma. Lo si è visto in occasione del tentativo del cardinale Sarah, di cui tratta Philippe Maxence in questo numero di Res Novæ. Inoltre, questo processo di rivolgimento si scontra con la resistenza di un certo numero di fedeli, dovuto ad oltre cinquant’anni di abitudini opposte.

Quello che sta accadendo attualmente in Kerala, a sud dell’India, in seno alla Chiesa siro-malabarese (la più importante Chiesa orientale unita a Roma dopo quella greco-ucraina), è a questo proposito istruttivo. Al termine di una lunga lotta tra antico e moderno, il sinodo siro-malabarese ha optato per un compromesso e deciso, nel 1999, che i preti sarebbero stati rivolti verso l’assemblea fino alla preghiera eucaristica e da questa in poi si sarebbero rivolti verso l’altare, ciò che è stato recentemente approvato da papa Francesco. Ma questa stessa operazione è parsa del tutto insopportabile ai sostenitori di una celebrazione tutta verso il popolo, i quali hanno tentato, non senza violenza, di fare sbarramento con questo argomento: «La messa verso il popolo è la nostra tradizione». La disputa tra antichi e moderni su fronti opposti… il che è in fondo un vantaggio: la reintroduzione progressiva di una liturgia tradizionale nelle parrocchie avrà l’attrattiva di una novità, di una novità non demagogica, stavolta, bensì di grande qualità spirituale.

Don Claude Barthe


[1] Immaginare per la Chiesa un’uscita dalla crisi – Res Novae – Perspectives romaines

[2] Claude Barthe, Reconstruire la liturgie, François-Xavier de Guibert.

[3] Si vedano anche due titoli contrapposti per uno stesso obiettivo: Levatois Marc, La messe à l’envers [La messa al contrario], Edizioni Jacqueline Chambon, 2009; Claude Barthe, La Messe à l’endroit [La messa in piedi], L’Homme nouveau, collezione Hora Decima, 2010.

[4] Si veda tra gli altri: Uwe Michael Lang Se tourner vers le Seigneur. L’orientation de la prière liturgique [Volgersi verso il Signore. L’orientamento della preghiera liturgica], Ad Solem, novembre 2006.

[5] «Der neue Altar» [Il nuovo Altare], in Der Seelsorger, 37, 1967, 374-381.

[6] Paolo VI si era dato da fare di persona per questa transizione, celebrando lui stesso una messa in italiano e verso il popolo, a Roma, nella chiesa di Ognissanti, il 7 marzo 1965.