01/10/2022

Per una vera riforma della Chiesa

Par l'abbé Claude Barthe

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Vaticano II, c’è bisogno di Vaticano II, ancora di più! Ma l’elisir riformatore è stantio da molto tempo… Riformare cosa, comunque? Il grande disegno di Francesco, simbolizzato dalla Prædicate Evangelium, la costituzione che riforma la Curia, è tanto una riforma della Chiesa secondo lo spirito del Vaticano II quanto una riforma della Curia stessa. Viene mantenuta certamente un’ambiguità sul tema Curia-Chiesa, prolungata ed accresciuta dai media, ma i legami tra l’una e l’altra riforma non sono meno stretti: la riorganizzazione del governo romano comporta infatti necessariamente delle conseguenze anche su quello dell’intera Chiesa.

Ciò è risultato evidente durante le discussioni, che hanno avuto luogo in occasione del concistoro di fine agosto, quando è stata inscenata una sorta di seconda e più solenne promulgazione della Costituzione Prædicate Evangelium del 19 marzo 2022. Essa è stata presentata al collegio cardinalizio, cui è stata data la parola – debitamente inquadrata – per manifestare la propria approvazione. Tuttavia non sono mancate le critiche1, che hanno così sottolineato la posta ecclesiale in gioco a fronte di qualsiasi riforma dell’amministrazione centrale. Dei cardinali hanno sollevato la difficoltà derivante dalla facoltà di nominare semplici laici a capo dei dicasteri. La loro richiesta, che invocava Lumen Gentium e la sacramentalità dell’episcopato, era alquanto sfumata. Per riassumere il vero problema: un certo numero di prefetti di Curia hanno poteri reali di giurisdizione, specialmente per giudicare vescovi e sacerdoti ed anche per diffondere testi, risposte e sentenze di valore dottrinale. Tale giurisdizione essi la ricevono su delega del papa, ma, per vedersela conferire, devono possedere una capacità intrinseca verso questo tipo di atti (giudicare, insegnare), capacità che discende dalla loro qualifica di sacerdoti. È stato notato anche l’abuso del termine sinodalità, sorta di slogan che vuol esprimere un ampliamento all’intero popolo di Dio della collegialità episcopale cara al Vaticano II. Però, storicamente, come ha fatto rimarcare un cardinale orientale, il termine sinodalità è quasi equivalente a quello di collegialità episcopale, poiché rimanda giustamente ad un certo esercizio collegiale del potere episcopale nelle Chiese orientali. Non è quindi adatto ad esprimere una sorta di democratizzazione, che dovrebbe piuttosto essere chiamata «comunialità».

Riforme successive nella linea del Vaticano II su di una Chiesa inaridita e divisa

Bisogna tener presente che il Vaticano II, in quattro anni, dal 1962 al 1965, ha abbattuto l’edificio non solamente tridentino, come ci si contenta di dire spesso, ma anche quello gregoriano (della Riforma gregoriana, nell’XI secolo). Malgrado tutte le crisi, il Grande Scisma, la Riforma protestante, la Rivoluzione ed in modo più patetico dopo quest’ultima, la Chiesa ha continuato a rivendicare pienamente, come ha fatto con forza estrema nel «momento gregoriano», il principio della propria libertà: Sposa di Cristo, essa ha sempre avuto coscienza d’esser la totalità sovrannaturale del suo Corpo mistico sulla terra. Ma ecco che il Vaticano II ha fatto saltare quest’assoluta pienezza, che la Chiesa affermava d’essere: diffondendo un certo numero di «intuizioni» (libertà religiosa, ecumenismo, principi del dialogo interreligioso), questo concilio ha riconosciuto l’esistenza di realtà sovrannaturali fuori dalla Chiesa, certamente incomplete, di cammini salutari, benché carenti, di una comunione con Cristo, anche se imperfetta. Di colpo dei testi magisteriali nel solco dell’enciclica Quas Primas sulla regalità istituzionale di Cristo, sono divenuti obsoleti. Questa «apertura al mondo moderno» da parte della società ecclesiastica, molto concretamente apertura alla democrazia liberale, si è realizzata in concomitanza all’infatuazione per la secolarizzazione di questo mondo. Sempre che il capovolgimento ecclesiologico operato non abbia fortemente contribuito ad accrescere tale secolarizzazione. Davanti alla quale gli uomini di Chiesa sono stati colti di sorpresa. Avevano fatto cento passi avanti, mentre il mondo ne aveva compiuti diecimila. Ed il rinnovamento è parso un suicidio: di tutte le conseguenze politiche, spirituali, disciplinari, che ne risultarono, la più sorprendente è stato l’esaurimento della missione, ragion d’essere della Chiesa di Cristo, che si legge nel rarefarsi dei principali operai della messe, sacerdoti e religiosi, nonché del numero di convertiti e di praticanti.

Peggio ancora, non solamente il corpo s’anemizzava, ma si sbriciolava. Ben presto è divenuto evidente che il Concilio non era riuscito a fare unità attorno al proprio progetto: l’opposizione della minoranza conciliare – divenuta l’opposizione tradizionalista, resa dinamica dalla sua dimensione liturgica – s’è rivelata impossibile da ridimensionare, le sue fila si sono anzi ingrossate, soprattutto dopo l’attuale pontificato, grazie a tutto un mondo riformista o «restaurazionista», che, al fondo e checché se ne dica, non si è mai pienamente conciliato col Vaticano II. L’unità di quanto restava del cattolicesimo è andata in frantumi.

È stato dunque in questo contesto di una Chiesa in via d’inaridimento ed ancor più divisa che si è cercato di riformare il suo governo centrale in linea con una concezione globale di quel che dovrebbe essere la riforma della Chiesa tutta intera, in altre parole in collegamento con la comprensione del Vaticano II.

Una prima volta, per rispondere agli auspici del Concilio, Paolo VI, con la costituzione Regimini Ecclesiæ Universæ, aveva profondamente ridisegnato il volto della Curia romana, creando, in particolare, organismi nuovi (Consigli per i Laici, per l’Unità dei Cristiani, ecc.). La modifica più emblematica da lui apportata ha riguardato la trasformazione della Suprema Congregazione del Sant’Uffizio – incaricata della regolamentazione della dottrina cattolica ad opera del papa e priva di Prefetto, riservandosi il pontefice direttamente il compito di dirigerla – nella Congregazione per la Dottrina della Fede. La costituzione Pastor Bonus del 28 giugno 1988, scritta da Giovanni Paolo II – costituzione, che ha principalmente armonizzato il funzionamento della Curia col nuovo Codice di Diritto canonico -, non ha apportato modifiche fondamentali. La vera novità di questa riforma stava nel rinnovamento dei vertici di governo, provenienti – come nel caso del personale liturgico – dalla maggioranza conciliare. A seconda delle nomine, le Congregazioni ed i Consigli diventavano più o meno progressisti o ritornavano ad essere più o meno conservatori.

Oggi Prædicate Evangelium vuole essere un’attuazione ulteriore dello «spirito del Concilio» sul governo romano ed, allo stesso tempo, un modello da seguire a tutti i livelli per promuovere una riforma veramente conciliare di tutta la Chiesa. Una delle modifiche-chiave è la retrocessione del Dicastero per la Dottrina della Fede in secondo piano, dopo quello dell’Evangelizzazione. Ma anche qui, la Curia è nuova soprattutto, perché il suo personale è stato «adeguato alle norme» bergogliane. Quanto al progetto di far compiere un decisivo salto di qualità conciliare tanto alla Curia quanto alla Chiesa tutta intera, l’anemia del corpo ecclesiastico e le tensioni sempre più forti che lo attraversano fanno sembrare questo un pio desiderio.

Tentativi di restaurazione dell’unità perduta: un doppio smacco

Quando la Chiesa è approdata alle rive del XXI secolo, si è potuto misurare lo smacco fondamentale del Vaticano II dal punto di vista, per essa primario, della missione: non solamente essa non convertiva più, ma il numero dei suoi fedeli, dei suoi religiosi e dei suoi preti si è ridotto a tal punto da sembrare in via di estinzione, almeno in Occidente. Il Vaticano II, la cui massima ambizione era quella di adattare il messaggio alla sensibilità degli uomini di questo tempo e di attirarli verso una Chiesa ringiovanita, trasformata, modernizzata, non è riuscita nemmeno ad interessarli.

E soprattutto, lo scorrere del tempo ha mostrato che uno squarcio, si può dire uno scisma latente, s’era prodotto dopo il Vaticano II, dividendo la Chiesa in due correnti, l’una e l’altra eterogenea, ma facilmente identificabile: la prima, per la quale si doveva rivisitare il Concilio o quanto meno arginarlo, l’altra, per la quale non era che un programma da cui partire. Il progetto di ristabilire l’unità attorno a questo Concilio, che non pretendeva d’essere magistero infallibile, cioè non era un principio di fede propriamente parlando, ha rappresentato la croce dei papi del post-Vaticano II. Hanno fallito. Tanto i papi della restaurazione, Giovanni Paolo II e soprattutto Benedetto XVI, quanto Francesco, papa del progresso, non hanno potuto nemmeno salvare le apparenze.

2005, il tentativo Ratzinger: inquadrare il Concilio

Poco dopo la sua elezione, nel suo ben noto discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, Benedetto XVI distingueva due interpretazioni della riforma conciliare, «l’ermeneutica della discontinuità e della rottura», ch’egli considerava nefasta, e «l’ermeneutica della riforma o del rinnovamento nella continuità», ch’egli faceva sua, destinata – diceva – ad impedire «una rottura tra la Chiesa preconciliare e la Chiesa postconciliare». In breve, era stato definito dal papa ciò che in una democrazia liberale – al cui modo di pensare la Chiesa è sempre più permeabile – si chiamerebbe centrodestra, legittimato dal papa, e centrosinistra, da lui squalificato.

Non si trattava assolutamente per il pontefice di aderire al fronte tradizionalista, che, in misura diversa, rifiutava il Concilio e/o la sua liturgia. Tuttavia, a causa del suo interesse per la liturgia preconciliare, Benedetto XVI avrebbe potuto andare oltre l’ermeneutica del rinnovamento nella continuità. Il suo «restaurazionismo» poteva divenire l’inizio di un processo di transizione, come quello che avvenne con Giovanni XXIII, ma in direzione opposta.

Però, com’è noto, il processo è rimasto a metà del guado, compreso ciò che concerne «il rinnovamento nella continuità»: non solamente non ha portato ad un rifiuto del Concilio, ma il restaurazionismo, l’arginatura del Concilio, è stato percepito come un fallimento, un tentativo privo di risultato. La Chiesa in Occidente ha continuato a sparire dallo spazio sociale, il personale ecclesiastico, sacerdoti, religiosi, seminaristi non hanno smesso di diminuire ed il centro romano ha dato l’impressione di non aver più un timoniere. Divenuto il bersaglio dei continui attacchi sferrati dai fautori dell’«ermeneutica della discontinuità», Benedetto XVI s’è isolato nel suo studio privato di teologo, anticipando moralmente le dimissioni, che alla fine ha deciso di rassegnare nel 2013.

2013, il tentativo di Bergoglio: massimizzare il Concilio

Come fosse naturale (in realtà, al termine di un’intensa preparazione elettorale), il conclave del 2013 ha tentato l’altra opzione, quella di centrosinistra, l’opposta «ermeneutica» del Vaticano II, alla quale aveva aderito Jorge Bergoglio. Il nuovo papa, che nel discorso alle riviste dei gesuiti del 2022 si è detto in lotta da una parte contro il «restaurazionismo», che vuole «imbavagliare» il Concilio, e dall’altra contro il «tradizionalismo», che lo vuole svuotare, s’è dunque adoperato per «abbattere i muri», secondo l’espressione da lui prediletta:

  • Quello di Humanæ vitæ e dell’insieme di testi, che con essa aveva preservato la morale coniugale dalla liberalizzazione che il Vaticano II aveva inflitto all’ecclesiologia. Amoris lætitia ha dichiarato nel 2016 che coloro che vivono in stato di pubblico adulterio possono restarvi senza commettere peccato grave (AL 301).
  • Quello di Summorum Pontificum, che aveva riconosciuto un diritto a quel piccolo museo della Chiesa d’un tempo ch’è la liturgia antica con la sua catechesi ed il suo clero. Traditionis custodes, nel 2021, e Desiderio desideravi, nel 2022, hanno invalidato questo tentativo di un «ritorno» ed hanno dichiarato che i nuovi libri liturgici sono la sola espressione della lex orandi del rito romano (TC, art. 1).

Ma l’opzione Bergoglio sta fallendo così com’era precedentemente fallita l’opzione Ratzinger: l’istituzione ecclesiale è continuata a crollare e la missione a spegnersi. E, se sotto Benedetto XVI la disillusione s’era cristallizzata per l’assenza di governo, è per la tracimazione di un governo confusionario e dittatoriale, nonostante la parola d’ordine della sinodalità e nonostante Prædicate Evangelium, che le critiche emergono sempre più con Francesco. Per di più, così come Benedetto XVI non ha mai corso il rischio di retrocedere al di sotto del Concilio, Francesco s’è accuratamente guardato dall’oltrepassarlo col rischio di far esplodere una struttura istituzionale: ad esempio, malgrado tutte le sue dichiarazioni contro il clericalismo, non ha mai veramente messo in discussione il celibato sacerdotale, né aperto al sacerdozio femminile.

Così, né il tentativo d’ammansire il Concilio, né quello di massimizzarlo hanno fermato l’emorragia, che è proseguita. Anzi è addirittura aumentata, nella misura in cui il polo conservatore (ratzingeriani e tradizionalisti, per riassumere grossolanamente) s’è rafforzato. In termini relativi, innanzi tutto, perché cresce in modo uniforme, almeno con l’arrivo delle nuove generazioni, mentre il polo progressista non si diffonde. Inoltre, perché è divenuto un po’ più omogeneo, si è stretta l’alleanza tra i ratzingeriani, fautori dell’«ermeneutica della riforma nella continuità», ed il «fronte del rifiuto», il tradizionalismo. Quest’ultimo è più presente che mai, come provano i ripetuti colpi che gli vengono inferti come se fosse il nemico per eccellenza.

Per una vera riforma

L’antico adagio Ecclesia semper reformanda, la Chiesa è sempre da riformarsi, si è diffuso all’inizio del XV secolo, all’epoca del Grande Scisma, quando divenne evidente a tutti la necessità di una «riforma nel capo e nelle membra», nel papato e nell’intero corpo ecclesiale. Ma si è dovuto attendere più di un secolo per vedere questo grande desiderio del mondo cattolico di realizzarsi veramente, al di là della riforma sotto forma di rivolta protestante, col Concilio di Trento.

In realtà, il tema della riforma di una Chiesa, in sé stessa santa ma composta di peccatori, risale all’XI secolo, a quella che gli storici hanno definito la riforma gregoriana – oggi si preferisce parlare di «momento gregoriano» -, e il suo fermento è stato la vita religiosa, soprattutto quella del monachesimo di Cluny. È nell’ordine delle cose, lo scopo della perfezione evangelica della vita religiosa rappresenta il modello per il necessario rinnovarsi della Chiesa. Questo è accompagnato ed incentivato dalle riforme degli ordini religiosi (tra le tante, quella del Carmelo, nel XVI secolo) con un ritorno alle esigenze delle Beatitudini, un rinnovamento spirituale e disciplinare, un ritiro dalla corruzione del mondo peccatore per convertirsi e per convertirlo (Gv 17, 16, 18).

Ma a partire dal cristianesimo dei Lumi, nei Paesi germanici, in Francia, in Italia, il termine di riforma ha cominciato ad essere applicato anche ad un altro progetto, quello di adattare le istituzioni ecclesiastiche al mondo circostante, che cominciava allora a sottrarsi al cristianesimo.

Due tipologie di riforma, d’ora in avanti, si troveranno spesso contrapposte, quella tradizionale di una riforma di rivitalizzazione dell’identità della Chiesa, e quella di una riforma d’adattamento della Chiesa alla nuova società, in cui vive. È essenzialmente l’idea tradizionale di riforma, che si ritrova in movimenti quale quello di rinascita degli ordini religiosi, soprattutto benedettini, nel XIX secolo dopo la tempesta rivoluzionaria, la restaurazione del tomismo a partire da Leone XIII, le riforme liturgiche e disciplinari di san Pio X all’inizio del XX secolo ed i tentativi attuati da Pio XII di arginare dal punto di vista dottrinale e liturgico i grandi fermenti degli Anni Cinquanta. Al contrario, la nuova idea di riforma, con il suo libro programmatico, Vraie et fausse réforme dans l’Église [Vera e falsa riforma nella Chiesa – NdT] d’Yves Congar (Cerf, 1950), la si legge nella «nouvelle théologie» [«nuova teologia» – NdT] del periodo del dopoguerra, nel movimento ecumenico ed, in parte, nel Movimento liturgico ed ha trionfato col Vaticano II.

Un rovesciamento ecclesiologico

Una riforma di tipo gregoriano, con una ritrovata liturgia, una disciplina rigorosa, una formazione esigente dei candidati al sacerdozio, una statura santa e forte dei pastori, una rievangelizzazione tramite una ri-catechizzazione, va di pari passo col rovesciamento ecclesiologico.

Ma non è pura malia auspicare un ritorno ad una Chiesa stile «momento gregoriano», mentre lo stato di nostra Madre, mezzo secolo dopo il Vaticano II e per una parte importante a causa di questo stesso concilio, è in condizioni di massimo abbandono, senza alcuna capacità di far valere quelle pretese «trionfalistiche» che si attribuiscono al papato dell’XI secolo?

Certamente no, se consideriamo che la forza di Dio si dispiega innanzi tutto nella debolezza. Quella del cattolicesimo è estrema e sembra sempre più un’anomalia per la cultura circostante. E molto debole è anche ciò che, malgrado tutto, continua nondimeno a prosperare in essa e che è difficile immaginare come il crogiuolo di un rinnovamento spirituale, catechistico, missionario, vocazionale, ma che può parteciparvi. Allo stato attuale, quel che si chiama il «nuovo cattolicesimo», costituito da sacerdoti «identitari», da giovani fedeli, da famiglie molto praticanti, da nuove comunità, da tradizionalismi di ogni sensibilità, rappresenta in Occidente tutto ciò che tra qualche anno resterà in vita. La sua importanza numerica è alquanto esile e prova inoltre le più grandi difficoltà nel resistere al peso della modernità, al condizionamento di un individualismo devastante ed alla tentazione «borghese», che su di esso si esercita.

Quale riforma domani? «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12, 10). E, per tornare a Roma ed alla sua Curia, è necessario, è addirittura possibile che il Successore di Pietro appaia per lungo tempo come una sorta di leader universale? In una grande «infermità», per parlare come san Paolo, ciò che rende l’essenza dell’episcopato romano e universale, cioè il fatto di affermare la fede in nome di Cristo senza possibilità d’errore, potrebbe apparire come l’oro puro che resta sul fondo del setaccio della crisi.

Don Claude Barthe


1 Il Sismografo: VaticanoLaici e sinodalità. Quel che si sono detti i cardinali nel concistoro segreto.