01/06/2022

Riforma della Curia e riduzione del potere dei vescovi

Par l'abbé Jean-Marie Perrot

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La costituzione apostolica Prædicate Evangelium afferma, nel proprio preambolo, la posizione di servizio che deve occupare la Curia romana, tanto nei confronti del papa quanto nei confronti dei vescovi, in quanto è ad essi che, per istituzione divina, dunque in modo inammissibile, viene affidata la responsabilità prima della missione e dell’unità della Chiesa. La Curia non s’interporrà pertanto, è scritto, tra il primo ed i secondi, come grado intermedio d’autorità. Questo è il principio.

Ma si è potuto notare come l’attuale riforma, attraverso un buon numero di proprie disposizioni, conduca a rafforzare singolarmente il potere papale. Che ne è di quello dei vescovi? Senza dubbio il tempo mostrerà quali forme concrete assumerà il «salutare decentramento» al servizio del «mistero della comunione» ch’è la Chiesa, al di là o al di sotto di quel che viene predicato. Al di là se, ad esempio, il cammino sinodale tedesco divenisse il modello di ciò che, senza esser raccomandato, fosse accettato o in ogni caso non condannato. Al di sotto se la pesantezza amministrativa della Curia e delle conferenze episcopali avesse impedito qualsiasi modifica importante. Al di sotto ancora se, a seguito di un prossimo conclave e per volontà di un nuovo papa, la Curia ed il Sinodo dei vescovi venissero arruolati al servizio di un nuovo cambio di rotta, come i pontificati di Giovanni Paolo II e di Francesco hanno mostrato.

Una logica «sinodale» che conferma la marginalizzazione dei vescovi diocesani

Comunque sia, una cosa sembra esser confermata ed amplificata, vale a dire la marginalizzazione del vescovo diocesano. Con discrezione. Il preambolo, che noi continuiamo a scrutare, cita al n. 6 l’inizio del n. 23 della costituzione Lumen gentium sulla Chiesa, in cui si afferma che «i vescovi sono, ciascuno per la propria parte, il principio ed il fondamento dell’unità nelle loro Chiese particolari», essendolo il pontefice romano per la Chiesa universale. Subito dopo, parafrasando un altro paragrafo del documento conciliare, il testo cita, quali effetti della «Provvidenza divina», gli organi della collegialità episcopale che sono le «antiche Chiese patriarcali» e, più recentemente, le conferenze episcopali (n. 7). Questo appoggiarsi al concilio dev’essere interpretato col metro di un’altra spiegazione fatta da Prædicate Evangelium già nelle sue prime righe. In una ripresa dell’ecclesiologia di comunione si legge, in effetti, al n. 4: «nella Chiesa, la missione è… strettamente legata alla comunione […]. Questa vita di comunione conferisce alla Chiesa il volto della sinodalità, cioè di una Chiesa di mutuo ascolto, in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo dei fedeli, Collegio dei vescovi, vescovo di Roma: gli uni ascoltano gli altri e tutti ascoltano lo Spirito Santo, lo Spirito di verità, per sapere cosa egli dica alle Chiese».

Sembra chiaro come questa logica sinodale favorisca, a livello episcopale, le istanze collegiali che sono il Sinodo dei vescovi – così la Chiesa universale è passata, in questi ultimi anni, di sinodo in sinodo – e le conferenze episcopali a scapito del vescovo, pastore vero e proprio della sua diocesi. Si potrebbe certo obiettare come il testo di Lumen gentium già citato venga completato dal secondo dei «principi e criteri» generali, garantendo così al vescovo diocesano il pieno esercizio del suo potere, nel quadro di una sana collegialità, di cui non si potrebbe negare la legittimità: «Questa riforma propone, nello spirito di una “decentralizzazione” salutare[1], di lasciare alla competenza dei Pastori la facoltà di risolvere, nell’esercizio del “compito loro proprio di maestri” e di pastori, le questioni ch’essi conoscono bene e che non toccano l’unità della dottrina, della disciplina e della comunione della Chiesa, agendo sempre con questa corresponsabilità, che è il frutto e l’espressione di quel mysterium communionis specifico, che è la Chiesa».

Una tale prospettiva positiva, purtroppo, non è per niente scontata. In effetti, bisogna confrontare il principio enunciato alla lettera apostolica in forma di motu proprio Competentias quasdam decernere dell’11 febbraio 2022, poche settimana prima del Prædicate Evangelium. Però, astraendo dalle misure tecniche o disciplinari, il motu proprio stabilisce principalmente il trasferimento di competenze alle conferenze episcopali per la fondazione di seminari interdiocesani, per la formazione sacerdotale che vi viene impartita e per la pubblicazione dei catechismi. E questo in nome di una «salutare decentralizzazione» e dell’«universalità condivisa e plurale della Chiesa, che integra le differenze senza uniformarle e la cui unità viene garantita dal ministero del vescovo di Roma». Così quando, nel paragrafo seguente, le decisioni del motu proprio vengono giustificate anche dalla necessità di «un’azione pastorale di governo più rapida ed efficace da parte dell’autorità locale, facilitata dalla sua vicinanza alle persone ed alle situazioni, che ne hanno bisogno», si sa che quest’autorità locale non è, per argomenti importanti che dovrebbero riguardarlo in primis, il vescovo diocesano.

Il vescovo, «pastore vero e proprio» alquanto controllato

Certo, non si può privare questi del fatto d’essere il pastore vero e proprio del popolo che gli è stato affidato e, per questo, di avere determinati poteri. Ma questo esercizio lo si può inquadrare in modo tale ch’egli se ne privi a beneficio delle istanze collegiali. Chi si rifiutasse di farlo, sarebbe sospetto. Uno dei «principi e criteri» di Prædicate Evangelium aleggia come una minaccia su eventuali indipendenti: il «servizio della Curia alla missione dei vescovi ed alla comunione viene proposto, pure attraverso l’adempimento, in uno spirito fraterno, di compiti di vigilanza, di sostegno e di crescita di una comunione reciproca, affettiva ed effettiva del Successore di Pietro con i vescovi» (n. 3).

Non si è attesa questa riforma della Curia per guardare con occhio sospettoso questi vescovi indipendenti e talvolta con conseguenze spiacevoli. Contestualmente ai documenti considerati finora – e questa concomitanza colpisce – mons. Hector Aquer, arcivescovo emerito de La Plata, si è pubblicamente commosso per la destituzione di mons. Fernandez Torres dalla sua sede d’Aracibo a Porto Rico, all’inizio del mese di marzo 2022. Sebbene i motivi della decisione rimangano segreti, si sa comunque ch’era stato suggerito a mons. Fernandez Torres di dimettersi, ma s’era rifiutato. Sembra ch’egli si sia dispiaciuto per quanto è stato giudicato come una mancanza di spirito collegiale in ripetute circostanze: l’obbligo vaccinale, il motu proprio Traditionis custodes o ancora la sua volontà di mantenere un seminario diocesano. A prescindere da questi od altri punti, mons. Aguer ha protestato in un articolo dal titolo evocativo («Conferenze episcopali? Libertà dei vescovi!») sul sito d’informazione InfoCatólica in data 22 aprile 2022, non soltanto contro la destituzione, bensì anche contro il tipo di collegialità, che è stata imposta e che non adesso non ammette più eccezioni. Queste critiche, evidentemente, non è lui né il primo, né il solo ad avanzarle: organizzazione centralizzatrice modellata sui parlamenti secolari, gioco di commissioni, di maggioranze e di minoranze, regno di un legalismo pecoresco e di un moralismo imperativo circa l’unità da preservare, tropismo pastorale, temi e programma dipendenti dall’attualità mediatica e dai gruppi di pressione. L’accusa è grave e l’autore se ne rende conto; ma è secondo lui impensabile che un vescovo diocesano non abbia la prima e l’ultima parola su materie tanto fondamentali quali la liturgia e la formazione dei preti, ciò che il diritto della Chiesa, d’altronde, gli riconosce. In teoria. Tuttavia, colui che è stato allontanato è il vescovo di una diocesi – che l’arcivescovo emerito conosce bene -, i cui preti si fanno notare per la loro pietà e dove fioriscono le vocazioni sacerdotali… È questo, in definitiva, ciò che gli si rimprovera?

I vescovi non-collegiali cancellati

Dimesso: dopo mons. Arguer, la parola è troppo debole. Mons. Fernandez Torres è stato «cancellato» (cancelled, si direbbe nel vocabolario woke). Se il papa non deve giustificare le proprie azioni, la dichiarazione della conferenza episcopale di Porto Rico ha, per il suo carattere sibillino e aspro, mancato della più elementare carità, gettato il sospetto di atti gravi sul proprio confratello e lo ha fatto sparire meramente e semplicemente dal paesaggio ecclesiastico. Mons. Arguer rimanda allora ad un suo articolo di poco precedente («Ai preti cancellati» del 16 marzo 2022), in cui s’ergeva contro un fenomeno inquietante per la sua crescente ampiezza e per la sua durezza e ciò da un decennio, l’eliminazione dei preti nella Chiesa. Non è, per ciò che riguarda il metodo, quanto capitato all’ex-arcivescovo di Parigi, mons. Aupetit? Lo stesso papa non ha riconosciuto che le sue «dimissioni» erano il frutto amaro, ma accettato di un gioco di voci, diffuse in modo compiacente o di proposito dai media?

Non è questo quanto tentato – e continua ad esserlo – contro l’arcivescovo di Colonia, il cardinale Woelki, con una potente campagna-stampa sulla gestione degli abusi sui minori da parte del clero? Se ci si sovviene che questa tematica – per quanto grave sia – è il paravento di una lotta del cammino sinodale tedesco contro ciò che chiama clericalismo, permettendo agli attivisti di far saltare, uno dopo l’altro, tutti i paletti dottrinali, ecclesiastici, disciplinari; se si nota che il cardinale è un feroce oppositore di questi intrighi e che coloro che l’attaccano (ad esempio il movimento femminista Maria 2.0) sono gli stessi che manovrano negli organismi del sinodo, è lecito un dubbio circa le intenzioni reali delle proteste contro Woelki. Nel marzo 2022 ha presentato, per la seconda volta, le sue dimissioni al papa, che, ad oggi, non ha ancora dato risposta.

Il wokismo brutale, di cui abbiamo già detto, che s’insinua nella Chiesa, e la sinodalità che nega surrettiziamente ai pastori veri e propri delle Chiese particolari il diritto d’esercitare pienamente e liberamente la loro missione, in origine non hanno collegamenti; ma – lo si vede nella società civile – il secondo è la condizione del primo e si può pensare che la scomparsa delle mediazioni tradizionali conduca, contrariamente alla pace ed all’unità invocate, a cricche e violenza.

Don Jean-Marie Perrot


[1] Citazione dell’Evangelii gaudium n. 16, che può essere opportuno citare più per esteso: «Non credo neppure che ci si debba aspettare dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa ed il mondo. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”».