Traditionis custodes o la liturgia nuova lasciata a sé stessa
Abbiamo detto poco fa a mo’ di battuta che solo la messa tradizionale potrebbe salvare la messa del Vaticano II. I celebranti di spirito «classico» si vedono, in effetti, obbligati a sforzi continui, ispirati o direttamente o per il tramite di abitudini, che perdurano dal vecchio modo di celebrare e di credere, per strappare la nuova liturgia a questa banalità di volerla «vicina alla vita della gente». Siamo chiari: il reciproco arricchimento auspicato da Benedetto XVI mirava essenzialmente a dare un po’ più di sostanza alla messa nuova. Ma ecco che Traditionis custodes vuole farla finita con la liturgia antica, minando così il riferimento alla tradizione remota, ch’essa rappresentava, accanto a quella nuova.
La messa non è più un sacrificio
Nei dibattiti teologici contemporanei, prendere in considerazione le posizioni più avanzate permette di comprendere meglio quelle di tendenza più moderata.
Si sa che, tra i difetti rimproverati alla messa del Vaticano II, emerge la sua più debole espressione del sacrificio eucaristico. Da qui l’interesse per la lettura del biblista Martin Pochon, gesuita, che ne L’épître aux Hébreux au rregard des Évangiles[1] (La lettera agli Ebrei alla luce dei Vangeli), ritiene che la prospettiva sacrificale della messa, elaborata a partire dal II secolo e sancita dal concilio di Trento, si allontana dai Vangeli, privilegiando la lettera agli Ebrei. Ed in più, della lettera agli Ebrei indirizzata a cristiani giudaizzanti, privilegia la parte centrale (7, 1 – 10, 18), la più sacrificale.
Nei Vangeli, secondo P. Pochon, Cristo rivela il vero volto del Padre attraverso il dono che ci fa della sua vita: nell’Ultima Cena, Cristo si identifica col pane e col vino, doni di Dio ch’egli consegna gratuitamente [vale a dire senza pretendere una conversione previa] nelle mani dei suoi discepoli peccatori, Pietro che lo rinnegherà e Giuda che lo tradirà. Tutto viene offerto agli uomini, niente a Dio, però tutto viene da lui: è – dixit Pochon – il vero senso della Croce. Invece la lettera agli Ebrei presenta una figura di Pietro temibile, con un Figlio obbediente, che s’è offerto a Dio in sacrificio, così da intercedere per i peccatori ch’egli protegge dalla collera di Dio, rendendoselo propizio. La lettera agli Ebrei e la liturgia posteriore hanno invertito il senso dell’Ultima Cena e della messa. D’altronde, Cristo ha scelto di vivere l’Ultima Cena nella prospettiva della Pasqua, memoriale della liberazione degli Ebrei dalla schiavitù, con un agnello che non viene offerto a Dio – sempre Pochon -, bensì che Dio ci offre. Lui non ha scelto la festa di Yom Kippur, del Grande Perdono, durante la quale si offrivano dei sacrifici per il peccato contro la divinità, affinché essa si relazionasse di nuovo col suo popolo, rito cui si ispira l’epistola per parlare del sangue, che suggella una volta per tutte la Nuova Alleanza, e la messa tridentina, una messa ebraica quando la si comprenda bene.
Sulla stessa linea, Jacques Musset, ch’era stato sacerdote della diocesi di Rennes, ritiene che la «deriva», che consiste nel vedere nella messa il rinnovarsi del sacrificio espiatorio offerto da Gesù versando il suo sangue sulla Croce per la salvezza dei peccatori, sarebbe sorta al termine del periodo in cui si è costituito il Nuovo Testamento ossia nel II secolo e durante il III[2]. Secondo lui, essa è concomitante con la comparsa dell’episcopato monarchico, che ha preso il posto d’una struttura direttiva collegiale delle comunità cristiane.
J. Musset dipende dalle tesi di Joseph Moingt, gesuita del Centro Sèvres a Parigi, ora deceduto, il quale nel suo ultimo libro, L’Esprit du christianisme[3] [Lo Spirito del cristianesimo], dice la sua su di un tema di successo, riassunto dalla celebre frase di Loisy: «Gesù annunciava il Regno ed è la Chiesa, che è giunta». J. Moingt ravvisava due «svolte» concomitanti alla fine del II secolo: da una parte la «svolta religiosa», che vedeva le diverse comunità di vita evangelica tramutarsi in una «religione istituita», destinata a rendere culto a Dio ed a fornire assistenza spirituale ai presenti, con personale dedicato a questo scopo, distinto dagli altri cristiani, e con un’unificazione delle credenze sotto forma di «ortodossia»; e d’altra parte la «svolta sacrificale» con cui l’episcopato monarchico, che s’impose allora, faceva riferimento all’Antico Testamento per qualificarsi come potere sacerdotale, portando così l’Eucaristia dalla tavola verso l’altare e compiendo un sacrificio per i peccati. Di tutto questo darebbe testimonianza la Tradizione apostolica d’Ippolito.
J. Moingt ricorda tuttavia le parole di Gesù durante l’Ultima Cena (corpo «dato», sangue «versato»; «questo è il mio sangue, il sangue dell’Alleanza, versato per molti, per il perdono dei peccati», Mt 26, 28), che riferiscono l’Ultima Cena alla sua morte imminente e presentano un possibile legame con i sacrifici del Tempio. Ma egli dubita, assieme «agli storici», che queste parole siano davvero di Cristo e sostiene che la Chiesa non ha potuto considerare l’Ultima Cena e la messa come riferite al sacrificio cruento per i peccati solo in quanto la liturgia viene ormai «offerta da un sacerdote debitamente consacrato»[4]. I cristiani di base, d’altronde, hanno accettato tanto più facilmente d’esser spogliati del proprio sacerdozio originario piuttosto che le vicine religioni idolatriche avessero tutte sacerdoti consacrati ed anche che il riconoscimento in corso presso i cristiani dell’unità dei due Testamenti trasformasse il sacerdozio ed i sacrifici ebraici in «immagini» di quelli della Chiesa. In breve, sotto l’azione combinata del paganesimo e del giudaismo il cristianesimo è divenuto sacerdotale e sacrificale e tale è rimasto.
La messa del Vaticano II, un compromesso
Al tempo della riforma liturgica del Vaticano II e della sua attuazione, la problematica riguardante il sacrificio, assai meno radicale, fu molto ecumenica. Si trattò, in una prospettiva all’origine della quale fu in particolare Odon Casel, di cancellare il più possibile il fatto che i sacrifici della messa – da ritenersi, in ogni caso, interamente riferiti al sacrificio della Croce, ch’essi rinnovano – fossero numerosi con esso e tra loro[5]. Inoltre si manifestò, sempre in un’ottica ecumenica, l’annullamento del «troppo sacrificale», insistendo sull’aspetto del sacrificio di lode[6] – perfettamente ortodosso, va da sé, come indica lo stesso termine Eucaristia – piuttosto che sul suo fine propiziatorio[7].
Quali che fossero le intenzioni e le influenze, è evidente che il nuovo messale ha spostato l’attenzione, che la liturgia della messa poneva principalmente sul sacrificio del Venerdì Santo, verso il mistero pasquale nel suo insieme. Tra gli innumerevoli aspetti in questo senso, l’indebolimento del significato maggiore è risultato dalla soppressione dell’offertorio sacrificale tradizionale – il termine offertorio era sempre stato inteso nella liturgia nel senso forte di sacrificio -, il quale sottolineava con forza una coloritura propiziatoria («Ricevi, Padre santo, quest’offerta senza macchia che io ti presento per i miei peccati e quelli di coloro che mi circondano…»), ch’è stato rimpiazzato da una «preparazione dei doni» («Benedetto sei tu, Dio dell’universo, tu che doni questo pane frutto della terra e del lavoro dell’uomo, che diviene per noi pane di vita»).
L’eliminazione dell’offertorio è stata molto laboriosa. Venne elaborata una «preparazione dei doni», come quella con cui si supponeva fosse iniziata l’Ultima Cena, con imitazioni della berakha ebraica sul pane spezzato e della berakha sulla coppa del vino. A prevalere è stata la formulazione di Joseph Gélineau, sj. Le espressioni di offerta sacrificale, dell’«ostia immacolata» per i peccati del sacerdote e per la salvezza di «tutti i fedeli cristiani viventi e morti», del «calice salvifico» per la salvezza del mondo intero, vennero eliminate. M. Pochon testimonia di aver spesso sentito J. Gélineau spiegare come il Consilium della riforma avesse cercato di rettificare il significato della messa: invece del sacrificio di Gesù a suo Padre, per propiziarselo, ci si ritrovava ad accogliere l’offerta di Gesù agli uomini[8].
È vero che Paolo VI, in base alla preoccupazione ch’egli aveva manifestato al Concilio di condurre i sostenitori della dottrina tradizionale ad accettare più facilmente le novità, introdusse delle attenuazioni: aggiunta dell’offerimus (ma la traduzione francese ha corretto in: «noi presentiamo»); reintroduzione dell’Orate fratres («… il mio sacrificio che è anche il vostro…») e del responsorio Suscipiat («Che il Signore riceva dalle vostre mani il sacrificio…»), che la traduzione francese ha un po’ attenuato: «Preghiamo insieme nel momento in cui si offre il sacrificio di tutta la Chiesa».
Ciò permette a Martin Pochon di dire che questa riforma è rimasta «in mezzo al guado». In ogni caso, è accaduto qualcosa di mai visto nel dispiegarsi della formula del dogma: come in certi testi del Vaticano II (ad esempio, sull’ecumenismo), ma secondo il modo proprio della lex orandi, l’espressione dottrinale nuova (tra l’altro sul sacrificio) si ritrova più impressionista e più incerta di quella che ha sostituito.
Dopo Traditionis custodes?
Occorre aggiungere che il clima ecumenico verso il protestantesimo in cui è immersa la riforma liturgica s’iscriveva esso stesso nel contesto più generale di «apertura al presente della Chiesa e del mondo» secondo la formula di Pierre Jounel, uno dei maggiori artefici della nuova liturgia[9]. V’è stato un indebolimento nell’espressione del sacrificio, certo, ma all’interno d’un indebolimento generalizzato, un’esplosione di ritualismo, una banalizzazione dei gesti, delle parole, delle attitudini. Il modernismo e le sue conseguenze esprimono più il nulla che il contro.
Questo scivolare verso un messaggio insignificante viene tuttavia contrastato da una sorta di memoria tridentina, che aleggia ancora sulla liturgia conciliare. È stato considerevolmente ravvivato dalla celebrazione parallela del vecchio rito. Martin Pochon parla di «blocco» nell’evoluzione della riforma a causa del motu proprio Summorum Pontificum[10]: il successo del seminario della comunità San Martino, altare rivolto verso il Signore e canto gregoriano, non ne è il frutto indiretto? Al punto che Gilles Drouin, direttore dell’Istituto superiore di Liturgia dell’ICP, scrive con sollievo dopo Traditionis custodes: «I “fai-da-te rituali”, cui si assiste da qualche tempo e che pretendono di riempire i “silenzi delle rubriche” del Novus Ordo con riti o pratiche “lasciati in eredità” dal Vetus Ordo […] devono essere considerati con lo stesso rigore dei famosi abusi postconciliari[11]».
Ma coloro che si rallegrano nel vedersi chiudere la parentesi Summorum Pontificum rischiano di accorgersi che Traditionis custodes non sia a sua volta che una parentesi. Nelle ricomposizioni, che seguiranno l’attuale pontificato, l’usus antiquior dovrebbe poter sembrare come un’opportuna risorsa ecclesiale in virtù di tutto ciò che rappresenta. Continuando necessariamente a vivere ed a prosperare in quel piccolo gregge, cui si sta riducendo il cattolicesimo in Occidente, potrà, e non soltanto per la liturgia, accompagnare un processo di reviviscenza della Chiesa malata del Vaticano II. Se si sanno cogliere le occasioni.
Don Claude Barthe
[1] Cerf, 2020, p. 724.
[2] Jacques Musset, «Motu proprio, et après on fait quoi?» [«Motu proprio, e dopo che si fa?»], in Golias, 26 agosto 2021, pp. 19-20.
[3] Temps présent [Tempo presente], 2018.
[4] Op. cit., p. 124.
[5] Si veda: Claude Barthe, La Messe de Vatican II. Dossier historique [La Messa del Vaticano II. Dossier storico], Via Romana, 2018, pp. 178-182.
[6] Si vedano i tentativi di conciliazione: Joseph Ratzinger, «L’Eucarestia è un sacrificio?», Concilium aprile 1967, pp. 67-7.
[7] «Lutero percepì un elemento sacrificale nella messa: il sacrificio di gratitudine e di lode», dirà il Documento per la commemorazione lutero-cattolica del 2017, n. 148.
[8] L’épître aux Hébreux au renard des Évangiles, op. cit., p. 696.
[9] «Le Missel de Paul VI» [«Il Messale di Paolo VI»], La Maison-Dieu, 3° trimestre 1970, p. 26.
[10] L’épître aux Hébreux au renard des Évangiles, op. cit., p. 697.
[11] «Le pape François et la liturgie préconciliaire, ou la fin de la récréation» [«Il papa Francesco e la liturgia preconciliare, o la fine della ricreazione»], la Croix, 12 agosto 2021.