01/10/2021

Comportamenti ecclesiastici e ideologie decostruttiviste

Par l'abbé Jean-Marie Perrot

Français, English

Si assiste poco a poco, anche se di recente in modo accelerato, ad un allineamento di comportamenti nella Chiesa sulla più radicale delle ideologie decostruttiviste del nostro tempo, vale a dire il pensiero woke, la cancel culture? Con questi termini si designano convenientemente le analisi intellettuali ed una militanza, che intendono lottare contro forme di razzismo, d’omofobia, ecc, dichiarate strutturali ovvero contro il patriarcato occidentale bianco sotto tutte le sue forme; il combattimento può e, per certi aspetti, deve passare attraverso la scomparsa sociale di coloro che lo rendono perpetuo e che, così facendo, impediscono l’avvento di una società pacata, aperta e inclusiva.

Il caso esemplare di James Alison

Un libro recentemente tradotto in francese ne porta chiaramente il marchio. Il suo titolo è tutto un programma: La foi au-delà du ressentiment. Fragments catholiques et gays [La fede oltre il risentimento. Frammenti cattolici e gay] (edizioni du Cerf, 2021). Il suo autore non lo è meno: James Alison, nato in una famiglia anglicana, essendosi convertito al cattolicesimo all’età di 18 anni, entrò nei Domenicani e divenne sacerdote nel 1988. Alla fine del decennio seguente, fu sospeso da tutte le proprie funzioni sacerdotali (suspens a divinis) a causa di una vita apertamente omosessuale. Nel 2017, il 2 luglio, ha ricevuto una telefonata personale da Francesco, che gli ha detto: «Voglio che Lei cammini con una profonda libertà interiore, seguendo lo Spirito di Gesù. Ed io Le dono il potere delle chiavi. Ha capito? Io Le dono il potere delle chiavi».

All’inizio della sua opera, James Alison pone, in nome della verità di fede così come lui la presenta, un’affermazione radicale: «Non ho mai associato il cattolicesimo al grande annullamento dell’essere, con cui il mondo monoteista ha marchiato il desiderio omosessuale, benché esso si sia piegato a queste forze annientatrici, vi abbia ceduto e le abbia istituzionalizzate e non sia stato abbastanza coraggioso da resistervi come avrebbe dovuto» (p. 28). Lo iato espresso tra monoteismo e fede cristiana potrebbe incuriosire. Infatti, come discepolo dichiarato di René Girard, James Alison immagina la morte di Gesù come la denuncia da parte della vittima dei modelli sacrificali, che si sforzano di regolare le società umane, prese nella spirale mortifera dei desideri mimetici. Ne deriva una violenza indifferenziata, di tutti contro tutti, che, quando esacerbata, necessita che la comunità venga riconciliata; ciò d’altronde avviene attorno ad un capro espiatorio, alla sua morte, cruenta o meno. Per certi versi, secondo René Girard, Gesù è stato uno di loro. Tuttavia, per la libertà che fu sua propria, essendo stata scritta la storia della sua morte non dai carnefici, ma dai suoi discepoli, Gesù ha denunciato la falsità del processo alla vittima e quindi ha reso possibile un’autentica fratellanza.

Secondo James Alison, l’evoluzione delle società ha condotto la Chiesa, soprattutto dopo l’arrivo di Bergoglio al soglio di Pietro, ad avere uno sguardo differente verso le persone omosessuali. Papa Francesco, in particolare col suo «chi sono io per giudicare?», ha denunciato l’esclusione evidente degli Lgbt+; ancor più, ha volto il nostro sguardo verso la rigidità dei giudici e dei persecutori, ad indicare la responsabilità della situazione. Ciò permette di ripensare più liberamente la narrazione teologica e morale sul disordine sessuale, permette di decostruirla, risalendo alla creazione ed alla caduta originaria; senza per questo cercare d’argomentare e di convincere, poiché non si tratta tanto di confutare falsi argomenti quanto di smascherare un sistema d’oppressione: quest’esposizione, questa messa a nudo, è sufficiente per togliervi legittimità, per privarlo rapidamente delle sue forze. Tuttavia, sempre secondo James Alison, conviene non cadere nel risentimento e rovesciare il processo di vittimizzazione contro questo o quel sostenitore di una morale conservatrice. Poiché ciò che è in questione, non è quest’individuo, ma, nella Chiesa, «un sistema ipocrita di copertura e di espulsione» (p. 62).

L’inclusione degli esclusi

Riteniamo che James Alison non sia un caso isolato. Il suo pensiero corrisponde a parole e atteggiamenti più istituzionali. Evidentemente le cose non vengono dette con tanta franchezza. Per questo, oggi sta avvenendo un profondo rinnovamento nella concezione delle frontiere della Chiesa ed è inquietante che ci si stia muovendo in questa direzione.

Nei termini della teologia classica, l’unione dei fedeli a Cristo ed alla Chiesa si giudica secondo fede e carità, essendo l’opposto eresia, scisma o ancora peccato mortale. Il desiderio d’apertura alle altre confessioni cristiane, alle altre religioni, alle società secolarizzate, agnostiche ed atee, ha condotto ad un ripensamento. Prima, durante e dopo il concilio Vaticano II è stato sottolineato «ciò che abbiamo in comune», dall’adorazione del Dio unico coi musulmani fino alla ricerca di pace e giustizia nell’orizzonte di questo mondo, passando attraverso la confessione della paternità divina e della signoria di Gesù Cristo con le fedi protestanti. Basandosi, tra l’altro, sulla parabola del giudizio finale, che si trova al cap. 25 del vangelo secondo san Matteo, si è anche proposto di ragionare in termini prima di ortoprassi che di ortodossia. Oltre ad una valorizzazione dell’esperienza spirituale soggettiva e dell’agire etico, doveva pensarsi, in queste due prospettive, una riserva escatologica, un non-ancora sperato come già qui presente nelle esistenze personali e comunitarie, affinché non fossero associati troppo rigorosamente la Chiesa ed il Regno di Dio. In questo spazio, in cui lo Spirito Santo è presente ed attore, i non-battezzati ed i non-cattolici trovano il proprio posto.

Tuttavia, in tale contesto di relativizzazione e di contestazione della morale coniugale e familiare, questa categoria d’ortoprassi poneva ancora un confine netto, indicando, agli occhi di alcuni, l’esclusione di coloro la cui vita possa difficilmente esser giudicata secondo un’ortoprassi poggiata all’ortodossia, una dottrina chiara sull’indissolubilità e la fecondità del matrimonio. Amoris laetitia ha introdotto su questo punto un cambiamento profondo, considerato da alcuni come una rottura inaccettabile con la dottrina, da altri come un progresso ed un arricchimento omogeneo con quanto precede; o ancora, stando a sentire un’ultima categoria di persone, come una felice rottura con un rigorismo morale ormai sorpassato. Comunque sia, tutti concordano nel riconoscere alla misericordia una funzione centrale nella nuova configurazione, in cui vengono precisamente ridisegnati i contorni della Chiesa. Ai confini definiti con sufficiente chiarezza, ma ritenuti tali da escludere, la misericordia bergogliana sostituisce una dinamica trasformatrice ed inclusiva, secondo quei quattro grandi principi, che papa Francesco ama ripetere debbano strutturare la vita della Chiesa: il tempo superiore allo spazio, l’unità al conflitto, la realtà alle idee, il tutto alla parte (Evangelii gaudium, 215-244). L’«uscita da sé», che è la «legge dell’estasi» che abita in ogni uomo, deve condurre ad una fraternità inclusiva, aperta a tutti (Fratelli tutti, 88). Essa trova uno dei propri modelli concreti nel processo di ammissione ai sacramenti della penitenza e dell’Eucaristia delle persone in situazione matrimoniale irregolare; processo che riguarda ugualmente l’intera comunità cristiana, che ha il dovere di accoglierle. Sembra che anche al prossimo sinodo sul sinodo si sia voluto dare un programma identico.

Una misericordia di decostruzione

Per qualificare la misericordia così come viene concepita oggi, ci permettiamo di segnalare un testo molto interessante di Gilles Routhier, teologo del Quebec. Questo testo costituisce l’ultimo capitolo di un’opera scritta a quattro mani con Joseph Farnerée, Penser la réforme de l’Église [Pensare la riforma della Chiesa] (edizioni du Cerf, 2021). Collocandosi nella scia del Vaticano II, intende dispiegarne i semi di fecondità non ancora sviluppati, in particolare per una “routinizzazione” (p. 163) delle riforme iniziate. Senza dubbio in quanto prese in una logica troppo centrata sulla Chiesa. Il testo di Gilles Routhier s’intitola «La misericordia. Fondamento, principio e criterio di ogni riforma nella/della Chiesa» (pp. 159-187). Secondo questo teologo, per evitare tali rallentamenti, la riforma deve avere un’origine interiore, la quale non può essere che la conversione resa possibile dalla misericordia divina. Ciò è vero tanto per le conversioni individuali quanto – ciò che qui ci interessa – per quella della Chiesa. Non solamente perché, pur santa, essa è composta di peccatori, ma anche per l’impregnarsi nel peccato da parte degli uomini nelle strutture della Chiesa, come per il perpetuarsi tramite queste stesse strutture di situazioni disordinate. Ciò  che, dopo Giovanni Paolo II, si definisce «strutture di peccato». Però cosa sono? Secondo il nostro autore, tali strutture sono delle «configurazioni istituzionali», alimentate da «schemi mentali (le strutture patriarcali del pensiero, ad esempio, il credere nella superiorità della cultura occidentale, ecc.)» (p. 180). Eccoci tornati nel triangolo delle Bermude della decostruzione intellettuale e militante.

Perché delle due cose, l’una: o Gilles Routhier impiega delle formule alla moda senza pensare a null’altro di più – ciò che noi dubitiamo – oppure egli utilizza coscientemente queste nuove categorie per ripensare realtà come l’ordinazione riservata agli uomini, il governo della Chiesa legato al sacro potere, una Curia troppo italiana, occidentale, e senza dubbio anche il pensiero filosofico e teologico classico. Non si ragiona più solamente in termini di decentralizzazione, di collegialità,…

Si può andare oltre nella similitudine con il pensiero woke, la cancel culture? Quest’ultimo, in effetti, non denuncia soltanto, ma fa sparire; scomparsa che si opera in due modi: in primo luogo la demonizzazione, in secondo luogo la sparizione propriamente detta. La prima richiede la seconda. In più, il rifiuto degli interessati a sparire giustificherà, in un ciclo retroattivo, il rafforzarsi delle critiche. Così un simile comportamento, un tale modo d’essere viene proclamato inaccettabile, contrario ai principi fondamentali della comunità aperta. Ci si può allora permettere, si deve addirittura denunciare nei termini più vigorosi ciò che in passato sarebbe stato qualificato come comportamento antisociale. Ripetutamente e sistematicamente demonizzato, senza riconoscervi alcunché di positivo, senza che basti un pentimento parziale, esso non verrà più tenuto in considerazione, poiché non appartiene alla comunità così come si vuole ch’essa sia. Il compito delle persone coscienti, sveglie (woke) è quello di fare attenzione a questo chiarirsi delle posizioni, a questa denuncia ed a questo confino.

L’esclusione degli inclusi

È oltraggioso leggere in quest’ottica – visto che Gilles Routhier ce ne apre la porta – da un lato le denunce pressoché ossessive dei «rigidi» da parte di papa Francesco e dall’altro un certo numero di silenzi. Circa questi ultimi, si può pensare ai dubia dei cardinali dopo l’Amoris laetitia, rimasti senza risposta fino ad oggi, ed anche senza il minimo cenno di ricevuta; al messale vecchio, che non riceve alcuna attestazione nel motu proprio Traditionis custodes, sparendo così dalla lex orandi della Chiesa; o, per fare un ultimo esempio, recente, in un altro campo, alla visita in Ungheria (guidata da Viktor Orban), che non ha ricevuto, con sorpresa da parte di tutti e l’incomprensione di molti, lo status di viaggio diplomatico che meritava e che le convenzioni più ordinarie richiedevano.

Allo stesso tempo era stata sottolineata dal papa, nel corso delle due sessioni del sinodo sulla famiglia, l’apertura necessaria dei dibattiti a tutte le opinioni, senza che ciò dovesse preoccupare nessuno, svolgendosi questi scambi sub Petro et cum Petro. Parimenti, l’enciclica Fratelli tutti raccomanda una visione aperta ed inclusiva delle relazioni tra gli Stati, tra le comunità o i gruppi, tra persone, dove nessuno potrebbe essere escluso, si sostiene, poiché tutti siamo fratelli. Infine, sull’aereo di ritorno dalla Slovacchia (la cui visita in Ungheria fu una tappa), Francesco ha dato una risposta dilatoria alla questione relativa all’ammissione dei politici favorevoli all’aborto, essendo stata riferita esplicitamente la domanda agli Stati Uniti: riaffermando che l’aborto è un crimine, il papa ha dichiarato che, da parte sua, egli non ha mai rifiutato ad alcuno la comunione eucaristica.

Due pesi e due misure, si dirà, secondo le categorie classiche. Ci sembra che questi esempi consentano di notare un altro movimento, quello che noi cerchiamo di descrivere qui sommariamente. Poiché essi comportano un attaccamento forte ad una dottrina morale oggettiva intangibile nei suoi principi ed in alcune delle sue conseguenze, ad un rito elaborato e prescrittivo che pone in primo piano le dimensioni sacrificali e di adorazione del culto cristiano, ad una visione del bene comune nazionale, che si sente debitrice di un’eredità plurisecolare tanto nazionale quanto religiosa, alcuni di loro non beneficiano della libertà di parola e della considerazione intellettuale costitutive del dibattito, dialogo tanto promosso. Poiché – è quanto si insinua nella Chiesa, prima forse di proclamarlo apertamente, come nella società – sono loro gli ostacoli al vivere insieme e non lo sono invece quelli ch’essi chiamano peccati, disordini, abusi.

Don Jean-Marie Perrot