Il governo della Chiesa di Francia: tra spirito d’adesione ed annullamento episcopale
La recente pubblicazione di un’opera scientifica dedicata alla Conferenza episcopale francese solleva indirettamente la questione del potere e del ruolo di ciascun vescovo, il rapporto di quest’ultimo col papato (il sovrano pontefice e la curia) ed, in modo più ampio, con quello degli altri vescovi della medesima nazione, in particolare attraverso gli organismi di coordinamento dell’episcopato. Concentrando l’oggetto dei loro studi più sulle strutture che sulle personalità, storici e teologi hanno approfittato del centenario dell’Assemblea dei cardinali e degli arcivescovi (ACA) per tenere nel 2019 un convegno sui «Cento anni di governo della Chiesa in Francia», i cui Atti[1] consentono di cogliere gli sviluppi in questo campo a partire dalla legge di Separazione della Chiesa dallo Stato (1905) e poi di quelle legate al concilio Vaticano II ed alle sue conseguenze.
Senza entrare direttamente in una presentazione dettagliata dell’opera, che sarebbe nondimeno interessante per la ricchezza della documentazione, molteplici punti emergono dalla lettura dei diversi lavori. Il peso del fattore «politico» è certamente il principale tra questi e uno dei più illuminanti.
Dal Ralliement alla transazione permanente
Gli sconvolgimenti provocati dalla Rivoluzione francese, poi il «nuovo diritto»[2], consolidatosi sotto Napoleone, hanno avuto ripercussioni dirette sulla vita della Chiesa in Francia e sulle relazioni tra i vescovi. Senza nemmeno menzionare qui i vescovi resi martiri, tra coloro che intrapresero il cammino dell’emigrazione e del rinnovamento dell’episcopato, cui condusse il concordato del 1801, occorre notare con lo storico Christian Sorrel che «dal 1801 al 1905, il quadro concordatario ha vietato qualsiasi concertazione a livello nazionale e la sola realizzazione, il concilio del 1811 convocato da Napoleone in lotta contro Pio VII, ha lasciato un ricordo doloroso a Roma».
Per un secolo, i vescovi francesi non poterono dunque riunirsi per valutare la situazione e trovarvi delle soluzioni. Christian Sorrel precisa tuttavia che i concili provinciali sono ripresi dal 1848 (precisamente dal settembre 1849 all’ottobre 1850, poi dal 1851 al 1860), ma non sopravvissero all’instaurazione della Terza Repubblica ed all’attuazione di una politica profondamente anticlericale, con l’obiettivo di una laicizzazione totale della società francese.
Però i concili provinciali o plenari costituivano una forma antica di consultazione episcopale, aggiornata dal codice di diritto canonico pio-benedettino del 1917 (canoni dal 281 al 292), che stabilisce ch’essi possano essere tenuti solo dopo aver ricevuto l’autorizzazione del sovrano pontefice (canone 281) e che debbano essere convocati in ogni provincia ecclesiastica «almeno ogni vent’anni» (canone 284). Queste due importanti precisazioni vennero compromesse direttamente dall’ingerenza del potere politico nel complesso delle nuove norme giuridiche scaturite dalla Rivoluzione francese.
Pur iscrivendosi tutto in questo quadro ideologico, la legge sulla Separazione della Chiesa dallo Stato condusse papa Pio X ad autorizzare lo svolgimento di assemblee plenarie dell’episcopato francese. Esse si limitarono a tre incontri: aprile-maggio 1906, settembre 1906 e gennaio 1907. Il desiderio dei vescovi francesi di ritrovarsi nasceva principalmente dal bisogno di trovare una risposta alla legislazione repubblicana anticattolica. In tale contesto, Roma auspicava anche che l’unità della Chiesa in Francia si manifestasse chiaramente, pur sapendo che una parte dei vescovi francesi (la maggioranza?) era pronta, nello spirito del Ralliement imposto da Leone XIII (1892), a scendere a patti col potere repubblicano e laico.
Per Roma, si doveva quindi evitare sia che queste assemblee si trasformassero in organi dottrinali, sia che apparissero agli occhi del pubblico e del potere politico come un fattore di disaccordo tra il papa e l’episcopato francese. Queste assemblee vennero quindi inquadrate dalla pubblicazione di testi pontifici (l’enciclica Vehementer nos del 18 febbraio 1906; l’enciclica Gravissimo officii del 10 agosto 1906 e l’enciclica Une fois encore [Una volta ancora] del 6 gennaio 1907). Di più: nel periodo compreso tra la pubblicazione dei primi due documenti, Pio X aveva anche consacrato il 25 febbraio 1906 quattordici vescovi francesi, rinnovando in questo modo il corpo episcopale. Tali assemblee plenarie non ebbero seguito, poiché Roma chiese che fossero rimpiazzate da «conferenze regionali attorno ai cardinali di Parigi, Lione, Bordeaux e Reims».
Si dovette poi attendere l’indomani della Prima Guerra mondiale per veder comparire un primo organismo di consultazione con la creazione dell’Assemblea dei cardinali e degli arcivescovi (l’ACA), la cui prima riunione si tenne il 19 febbraio 1919. Sin da quell’evento furono affrontate questioni essenzialmente politiche in vista della pubblicazione di una lettera collettiva. In particolare, mentre si discuteva circa l’apposizione del Sacro Cuore sulla bandiera tricolore, la riunione si concentrò soprattutto sulle «regole elettorali: rifiuto del partito cattolico, dovere di votare, scelta del candidato ritenuto il meno peggio in una posizione eleggibile in mancanza del migliore». A questo proposito, Christian Sorrel osserva: «La preparazione della lettera collettiva si rivela laboriosa ed il compromesso pubblicato nel giugno 1919 delude tanto i fautori della riconciliazione quanto i sostenitori della linea dura».
Poteva essere altrimenti? Sebbene tutti i vescovi francesi fossero contrari in linea di principio alle leggi laiche della Repubblica, la loro posizione divergeva quanto all’atteggiamento pratico da adottare nei confronti di quella stessa Repubblica, che covava leggi anticattoliche.
Schematicamente, i vescovi, che accettarono il principio del Ralliement, percepirono la Repubblica attraverso la griglia tradizionale relativa ai diversi tipi di regime, senza cogliere la novità radicale, una novità ideologica, nata dai Lumi e istituzionalizzata dalla Rivoluzione. Le leggi laiciste non vennero dal canto loro percepite che come eccessi da combattere all’interno dello stesso sistema repubblicano. La normativa relativa alla Separazione della Chiesa dallo Stato, considerata in linea di principio cattiva, si è rivelata per questi stessi vescovi come un’opportunità per liberarsi dei legami col regime repubblicano, per riacquistare libertà d’azione e di… consultazione.
In linea con san Pio X, altri vescovi intesero assumere una posizione più ferma, non perché avessero necessariamente una migliore comprensione del carattere ideologico e sostanzialmente nuovo del sistema repubblicano rivoluzionario, ma perché ogni tentativo di accomodamento sembrò loro mettere a rischio il diritto della Chiesa.
Come in ogni assemblea, che riunisce posizioni differenti, la soluzione del compromesso, quella dell’opinione media, non può che rappresentare l’uscita d’emergenza. Lo è tanto più che, se si crede a Christian Sorrel, è la Roma di Pio XI a dare il tono: «Il papa e il segretario di Stato, il cardinal Gasparri, auspicavano la prosecuzione dell’unione sacra ed il rinnovamento delle direttive di Leone XIII a favore di un’adesione alla Repubblica per facilitare la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Parigi e Roma così come l’elaborazione di uno statuto giuridico della Chiesa in Francia».
La cultura del compromesso continuerà quindi ad affermarsi nelle deliberazioni dell’ACA, tanto più che il modo con cui Roma ha trattato il caso dell’Action française (1926) non incontra l’unanimità presso i vescovi francesi. Ma anche in questo caso Pio XI impone la sua linea. La messa in discussione della democrazia nel rapporto dell’ACA del 1927 è stata vista dal pontefice come un «atteggiamento, che potrebbe essere facilmente interpretato come una soddisfazione data all’Action française». Nel 1929, l’ACA, avendo rifiutato di traslare la volontà romana di vietare tutte le pubblicazioni maurassiane, il nunzio, «mons. Maglione, negoziò un compromesso, consultando i membri individualmente» e ottenne soddisfazione.
Messa alle strette da Roma per la vicenda dell’Action française e perseguendo una politica del compromesso di fronte al regime repubblicano, l’ACA ha continuato a strutturarsi e a svilupparsi.
Più tardi, la preparazione del concilio Vaticano II indusse a riflettere sulla collegialità e sui rapporti tra il pontefice romano ed il «corpo episcopale», espressione respinta ancora nel 1962 dal segretario di Stato di Giovanni XXIII, Amleto Cicognani.
Quando la collegialità assorbe i vescovi
Lo svolgimento del concilio (1962-1965) spinse i vescovi francesi a creare nuove strutture, tanto più che, secondo una lettera di mons. Veuillot a mons. Garrone, citata da Christian Sorrel, «”il regime assembleare” s’impone come norma». Finalmente, l’ACA scomparve nel maggio 1964, lasciando il posto alla Conferenza episcopale francese, che divenne poi la Conferenza dei vescovi di Francia (CEF), creata in seguito alla costituzione dogmatica Lumen gentium (n. 23).
Benché senza uno statuto teologico ben definito, la Conferenza episcopale si sviluppò in maniera autonoma, senza attendere ormai l’autorizzazione di Roma per riunirsi. Negli anni di Giovanni Paolo II, la tensione si è posizionata esattamente a questo livello, in particolare dopo la pubblicazione del motu proprio Apostolos suis sulla «natura teologica e giuridica delle conferenze episcopali». Due interpretazioni del testo romano all’epoca si contrapposero. Quella del teologo domenicano Hervé Legrand, sollecitato da padre Olivier de la Brosse, portavoce della CEF, e quella del cardinale Eyt, arcivescovo di Bordeaux.
Il teologo domenicano «ritiene che la visione della collegialità espressa nella lettera sia gravata da un “considerevole unilateralismo dottrinale: così l’episcopato (o il collegio dei vescovi) è chiaramente scollegato dalla comunione delle Chiese”», aggiungendo più avanti: «Questo era precisamente ciò che il Vaticano II aveva voluto correggere per ragioni di sana ecclesiologia, di precisione pastorale, d’impegno ecumenico». Al contrario, il cardinale Eyt «si fa portavoce di coloro che insistono sul carattere individuale della funzione di vescovo e che negano alle conferenze episcopali la qualifica di organismi magisteriali». Ad essere in gioco è semplicemente il fatto che la collegialità episcopale faccia nascere ed imponga un magistero intermedio tra il magistero pontificio e quello di ciascun vescovo, successore degli Apostoli.
Resta il fatto che, agli occhi dei fedeli, la CEF appare ormai come l’organo d’espressione della Chiesa francese, ivi compreso a livello magisteriale, come hanno mostrato anche recentemente le richieste raccolte in seguito ai casi di pedocriminalità da parte di sacerdoti e religiosi e riguardanti l’evoluzione del sacerdozio (celibato, apertura alle donne, ecc.) e, più in generale, la ridefinizione della dottrina cattolica nel suo insieme (liturgia, teologia, morale). Richieste, che non hanno suscitato reazioni pubbliche da parte della CEF in quanto tale, né da parte dei vescovi a titolo personale.
Ma, al di là di questi aspetti, la struttura stessa della Conferenza episcopale ed il regime assembleare comportano conseguenze molto pratiche. In un’intervista rilasciata, nel 2019, al quotidiano La Croix, mons. Éric de Moulins-Beaufort, all’epoca nuovo presidente della CEF, ritiene che i vescovi di Francia abbiano «una modalità di funzionamento parlamentare». Certo, alcuni ritengono che ciò sia ancora troppo classico e che si debba passare dal «governo» alla «governance», intesa come passaggio da una visione verticale ad una visione orizzontale, che il processo sinodale intrapreso, dall’alto e con autorità sul piano universale, dovrebbe favorire.
Nel settembre 2016 in un documento intitolato Dans un monde qui change, retrouver le sens du politique [In un mondo che cambia, ritrovare il senso del politico], il Consiglio permanente ha tradotto tali esigenze, reputando che «l’ordine normativo non viene più dall’alto, ma da una messa in comune dei legami orizzontali» (§ 7). Un seminario sulla sinodalità, organizzato nel dicembre 2018 dal Comitato Studi e progetti, presieduto allora da mons. Ulrich, futuro arcivescovo di Parigi, all’epoca a Lille, ha concluso che fosse necessario «proporre al consiglio permanente ed all’assemblea plenaria un’analisi circa la necessità della sinodalità», obiettivo subito ripreso come una priorità da padre Thierry Magnin, segretario generale della CEF e colui che La Croix presentò all’epoca come «uomo del consenso».
Non ci si deve sbagliare: l’obiettivo della sinodalità, attualmente perseguito, costituisce in realtà la tappa temporanea di un lungo processo di democratizzazione, che affonda le sue radici nell’epoca del Ralliement e che è stato riattivato in maniera più vigorosa dopo il Vaticano II, come spiegheremo. Lungi dall’esserne i beneficiari, i vescovi ne sono vittime, essendo il loro potere e la loro responsabilità di successori degli Apostoli diluiti nella Conferenza episcopale e nella sua inevitabile ricerca di consenso. E tutto questo proprio quando ogni voce episcopale dovrebbe poter far sentire la dottrina di Cristo di fronte alla diminuzione della fede ed alle cosiddette leggi sociali.
Tra le pratiche democratiche ed il primato della fede, bisogna compiere una scelta
Leone XIII si basava ancora su di una dottrina classica per imporre una politica (in questo campo) di riconoscimento della Rivoluzione. La tensione sorta tra tale politica, che si potrebbe definire transigente, e quella del suo successore, assolutamente intransigente, ha condotto i vescovi francesi a cercare il consenso nella loro lotta contro la secolarizzazione.
L’episodio dell’Action française, spesso presentato come un secondo Ralliement (cfr. Adrien Dansette), si è svolto in maniera intransigente a vantaggio d’una linea transigente nei confronti dello Stato repubblicano laico, essendo vietata ai vescovi qualsiasi critica alla democrazia moderna col pretesto di dar così un sostegno all’Action française.
Pio XI ha tradotto questa politica anche nella nomina di vescovi pronti a sposare questa linea di transigenza con la democrazia. Quest’ultima ha finito per debordare nelle stesse strutture della Chiesa di Francia, non principalmente attraverso l’uso (legittimo) del voto paritario, bensì come un meccanismo sociale di uniformazione del pensiero e dell’azione dei vescovi normalmente indipendenti e liberi, attraverso la ricerca di un consenso permanente. Quest’ultimo funzionava sempre più come una macchina di adesione alla secolarizzazione, prima riconosciuta nei fatti, poi elevata al rango di paradigma ideale col Rapporto Dagens (1996).
Anche se in quasi cinquant’anni lo Stato laico ha imposto l’aborto, le cosiddette leggi bioetiche, il rimborso della contraccezione e dell’aborto, il rafforzamento delle normative laiciste, il «matrimonio» omosessuale e presto l’eutanasia, nessun vescovo francese è stato in grado di esprimersi in modo duraturo, come difensore dello Stato, rimettendo in discussione il secolarismo, col rischio altrimenti di distruggere il consenso episcopale.
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Alla radice di questo annullamento episcopale non c’è solo il rapporto ambiguo della Chiesa con lo Stato moderno, ma, ancor più in profondità, lo sgretolamento della fede, che ha provocato tale ambiguità. In sostanza, quel che si cercava in un processo cominciato nel 1892, era una forma di cordialità con uno Stato dalle radici anticristiane, ciò che ha condotto al suo riconoscimento, poi all’adozione ad intra delle sue idee e delle sue pratiche democratiche. L’unica risposta che si può dare consiste nel rimettere la fede e quindi la questione della Salvezza al centro della consultazione e della decisione dei vescovi di Francia, sullo stile dei concili del passato. In altre parole, sta nel rompere il consenso dell’opinione per affidarsi al fondamento della fede.
Philippe Maxence
[1] Cent ans de gouvernement de l’Église en France [Cento anni di governo della Chiesa in Francia], sotto la direzione di Valentien Favrie, Charles Mercier e Christian Sorrel, Presses Universitaires de Rennes, 296 pagine, 25 €.
[2] Intendiamo qui il « nuovo diritto» nel senso di Leone XIII, che ne definisce così il suo principio fondamentale nell’Immortale Dei: «La sovranità di Dio è passata sotto silenzio, esattamente come se Dio non esistesse o come se non si occupasse per niente della società del genere umano; o come se gli uomini, sia singolarmente sia come società, non dovessero nulla a Dio o come se fosse possibile immaginare un qualsiasi potere, la cui causa, forza, autorità non risiedesse interamente in Dio stesso».