01/05/2021

Il neo-cristianesimo, grado zero della trasmissione della fede

Par l'abbé Claude Barthe

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L’aspetto più devastante della crisi della società degli Anni Sessanta (Concilio, maggio ’68) è consistito nell’interruzione o quanto meno nella riduzione drastica della trasmissione della fede, in primo luogo nel cattolicesimo. Una parte dei giovani cattolici ha smesso di essere tale, in seguito una parte dei figli di quanti erano rimasti cattolici (con un bagaglio catechistico insignificante) è rimasta ai margini dell’itinerario formativo e così via, in modo tale che il succedersi delle generazioni ha amplificato il doppio fenomeno della diserzione e, per quanti restavano nella Chiesa, dell’analfabetismo religioso. Un vescovo, che fu ausiliare di Roma, ci raccontava la propria sorpresa nel constatare come un certo numero di alunni delle scuole cattoliche della sua zona, dirette da religiose, non sapessero né le preghiere più elementari, né… farsi il segno della croce.

Nel numero del 25 gennaio 2021 abbiamo parlato del riflesso teorizzato in merito a questa situazione dalle teologie ultraliberali, che sono tutte versioni del neo-cattolicesimo contemporaneo[1]. Abbiamo notato ch’esse non si contentano delle riforme perseguite dalla tendenza conciliare più progressista: «Questo non è più il tempo delle riforme, bensì di una rottura radicale», dichiarava Padre José Maria Virgil[2].

Un domenicano belga, Dominique Collin, nato nel 1975, animatore della cappellania studentesca di Liegi, dottorando e ricercatore presso il Centro Sèvres di Parigi, alquanto rappresentativo di queste teologie del limite, sviluppa lo stesso argomento: «Certo, si può sempre modificare la tale o talaltra struttura ecclesiastica, por rimedio al tale o talaltro abuso, rivedere questa o quella disposizione canonica, ristrutturare la curia romana: tutte questa “riforme”, benché sembrino in certi momenti necessarie, restano accessorie in rapporto al senso ultimo del cristianesimo. Pongo la questione: una riforma può andare oltre un semplice lifting?[3]».

Il vantaggio dei pensatori cattolici dell’eccesso è che essi pongono in chiaro, spingendole al massimo, le ideologie che li hanno preceduti, nel caso specifico tutte quelle liberate dai fermenti del Concilio Vaticano II.

Della tradizione, facciamo tabula rasa

Il progetto di fare tabula rasa della tradizione, comune a tutti i progressismi avanzati, non può mai essere applicato totalmente, in quanto ridurrebbe all’insignificanza il messaggio religioso ch’esso trasmette, messaggio ch’è per forza di cose essenzialmente tradizionale. Riduzione all’insignificanza verso cui pure tende, malgrado tutte le mezze misure, come si vede nella riforma liturgica del Vaticano II.

Il pensiero di P. Collin, esposto in numerose conferenze ed in due recenti libri, Le christianisme n’existe pas encore[4] [Il cristianesimo non esiste ancora] e L’Évangile inouï[5] [Il Vangelo inaudito], trae ispirazione specialmente dalla critica di Kierkegaard alla Chiesa luterana di Danimarca. Kierkegaard voleva farla finita con la «menzogna», costituita dalla predicazione del cristianesimo da parte di questa Chiesa, al punto che, a suo giudizio, la missione dei sacerdoti non consisteva in altro che nell’impedire al cristianesimo di esistere.

Nello stesso solco, meno violento di Kierkegaard nei toni, ma più anarchico nella sostanza, Dominique Collin spiega che il cristianesimo storico e culturale, il cristianesimo «d’appartenenza» continua certamente a proclamare il Vangelo, ma dimenticandosi di proclamarlo come Vangelo – euangélion, buona notizia – al punto da esser in diritto di rimpiazzare il prefisso euforico eu, bene, buono, col prefisso dis, cattivo, difficile. Il cristianesimo d’appartenenza predicherebbe un «disvangelo», privo di interesse per la nostra epoca.

Come spesso accade, questo tipo di polemica comporta una parte di verità salutare: è ben vero che il cattolicesimo benpensante ha sempre avuto la tendenza a mettere la buona novella sotto il moggio. Ma è il cattolicesimo in quanto tale che la radicalità del discorso di Dominique Collin fa esplodere. Per lui non vale alcun riferimento alla tradizione, foss’anche vivente ed evolutiva: «Il cristianesimo non può essere padrone della propria tradizione vivente; non conosce che l’oggi del possibile. […] Un esempio: la Chiesa cattolica sta vivendo una crisi dei suoi ministeri, poiché cerca di “riempire” un “quadro” fornitole dalla sua storia, anziché domandarsi se il servizio al Regno non autorizzi nuovi ministeri»[6]. Di conseguenza, D. Collin preferisce parlare di «diaconia», senza rendersi conto quindi di riferirsi, volente o nolente, ad una tradizione di ministeri. A fortiori anche quando parla di Cristo come «evento della parola», di cui ritiene comunque che l’esistenza storica abbia poca importanza, ma di cui afferma ch’è stata tuttavia conservata «la memoria viva»[7].

I luoghi comuni delle teologie liberali

Il tema della quasi scomparsa del cristianesimo, della sua inesistenza salutata come una possibilità non ha alcunché di così nuovo. Senonché D. Collin scrive «inesistenza», il che significa che il cristianesimo non è cominciato e che resta da compiere. Possibilità, poiché, invece di esaurirsi con la missione di far «rientrare» i non-cristiani (il che è tanto più vano in quanto non ve ne sono né dentro, né fuori), quest’inesistenza permette d’impegnarsi a mostrare loro, là dove siano, «come il Vangelo inventi un diverso modo d’esistere»; possibilità, poiché non v’è più da scervellarsi per modernizzare il cristianesimo, in quanto questo è definitivamente superato; possibilità per il movimento ecumenico, poiché l’inesistenza del cristianesimo rende «il cristiano indifferente alle forme in cui il cristianesimo si istituzionalizza».

La parola cristiana è divenuta estranea ai nostri contemporanei? Alleluia! «D’ora in poi e poiché i tempi lo rendono impercettibile, se il Vangelo parla, lo fa unicamente ascoltando un suono inaudito», vale a dire non tramite la conoscenza soprannaturale ch’esso emana, ma tramite l’evento che costituisce il suo ascolto[8].

Un classico è anche lo svuotamento di ogni oggettività. Il religioso è la scoperta dell’io posto davanti a sé stesso nel , scoperta che è terapeutica ed euforizzante nella misura in cui l’io era fino ad allora abitato dall’angoscia esistenziale (l’angoscia kierkegaardiana). «È così che si presenta il Vangelo: è come uno specchio, che mostra il Sé, per lo più invisibile al nostro sguardo, poiché noi non vediamo mai la nostra immagine speculare… […]. Più matura questa riflessione, più la gioia s’accresce in me. Allora, non solo capisco che il testo mi comprende – e questo è già fonte di gioia -, ma giungo anche a capirmi come un Sé orientato verso la gioia»[9]. Perché il cristianesimo non dà a tutti la possibilità di divenire migliore, bensì quella di esistere finalmente. «Il movimento che riporta così il sé al sé che è in Dio, “così come Dio l’ha voluto”, è il movimento grazie al quale l’individuo riconosce che il sé gli viene offerto a condizione di accoglierlo!»[10]. Che importa che san Paolo abbia detto: «Perché noi non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù come Signore» (2 Cor 4, 5).

Non ci si stupirà nemmeno di ritrovare nel nostro teologo, però qui, di nuovo, spinta al massimo, la relativizzazione del dogma e della morale.

Relativizzazione del dogma, poiché «il Vangelo è libero dalla dottrina». In effetti, «benché la nostra epoca non conosca più certezze teologiche, essa resta convinta che il Vangelo non abbia altra utilità se non far conoscere misteriose credenze religiose, oggi ampiamente superate». Infatti, l’ascolto del messaggio evangelico ha tutta un’altra funzione: esso provoca l’estasi dinanzi all’inatteso ed all’inaudito. Questo messaggio è l’esatto contrario della ricezione di un sistema dogmatico «chiuso ed autoreferenziale che, al limite, può esentarsi dall’ascoltare il Vangelo», essendo tutto questo «indottrinamento» ordinato «da un’aspirazione al nulla», in quanto trascura l’ascolto, la libertà.

Dominique Collin ha, del resto, previsto la nostra naturale obiezione: «Ma voi mi direte: il Vangelo non ci rivela credenze anche fondamentali come la Trinità o l’Incarnazione? Io rispondo: queste credenze esistono in quanto tali nel Nuovo Testamento?». E di concedere a venti secoli di comprensione delle Scritture che, tutto sommato, l’attività teologica che ha prodotto tali credenze è «dopo tutto legittima». Per aggiungere subito che questo sapere (inverificabile!) non ci insegna niente su Dio, ciò che è del resto privo d’importanza, in quanto conta solo «la credenza che procede dalla fiducia», poiché è la fiducia in «una parola in cui riconosco la verità del mio desiderio d’essere Sé»[11]. Pertanto non serve a nulla porsi la questione dell’esistenza di Dio. Dio è Parola, una parola che mi chiama alla vita: dunque bisogna piuttosto porsi la questione di Dio come la mia autorizzazione ad esistere. Si potrebbe aggiungere: che autorizza Dio ad esistere.

Quanto alla relativizzazione della morale,questa è come un’evidenza, tanto più che il discorso morale della Chiesa è oggi screditato: «La fine della morale è una liberazione dal Vangelo, poiché il Vangelo dipende da un’etica della Vita (etica che non è dunque subordinata a preoccupazioni di ordine religioso: in questo senso non esiste un’etica cristiana). […] L’etica evangelica non conosce altra prospettiva se non quella che, a partire dalla Vita, fa divenire vivi»[12]. Non c’è una morale cristiana, c’è la Vita! Nihil novi

Fino all’insignificanza

Si cercherebbe quindi invano in una simile teologia un discorso su Dio che si rivela o sulle beatitudini evangeliche, se non nelle più epurate genericità religiose. Talmente epurate che cessano di essere religiose. «Il “Regno” è, in ragione del suo carattere non oggettivabile ed indefinibile (come ogni metafora), il solo “oggetto” di fede che non fa scadere in credenza. Bisogna dunque dire che il “contenuto” della fede è il Regno e che questo contenuto non può essere rappresentato. […È] non solamente il senso della sostanza della vita dei cristiani ma anche di tutti gli esseri umani, poiché il Regno non indica nulla di specificamente religioso»[13]. La diluizione del cristianesimo in un umanesimo («Anche noi, più di tutti, noi abbiamo il culto dell’uomo», Paolo VI chiudendo il Vaticano II) è qui spinta il più lontano possibile.

D’altronde è inutile cercare il Regno nel secondo avvento di Cristo, come avvenire, poiché esso è a-venire ovvero già dato e solamente da scoprire. Non essendovi peccato, ma soltanto «ambiguità» nei confronti della Vita, la scoperta del Regno consiste nel passare dall’immaginario, che noi abbiamo ritenuto realtà, al reale. Cosa dire allora di Dio che si fa uomo e che muore sulla Croce per i nostri peccati? «È quando il cristianesimo ha cominciato a dimenticare la realtà del Regno che ha sostituito il discorso della redenzione a quello della manifestazione (epifania)»[14].

In poche parole, la «buona novella» del neo-cristianesimo per gli uomini di questo tempo consiste nella scomparsa dell’annuncio della Redenzione.

Don Claude Barthe


[1] «Un tuffo progressivo del cattolicesimo nel nulla».

[2] 8 ottobre 2020, pp. 7-8.

[3] Le christianisme n’existe pas encore [Il cristianesimo non esiste ancora], qui di seguito, p. 46.

[4] Salvator, 2018.

[5] Salvator, 2020.

[6] Le christianisme n’existe pas encore, op. cit., p. 48.

[7] Le christianisme n’existe pas encore, op. cit., p. 34.

[8] L’Évangile inouï, op. cit., p. 14.

[9] L’Évangile inouï, op. cit., pp. 114, 116.

[10] Le christianisme n’existe pas encore, op. cit., p. 149.

[11] Le christianisme n’existe pas encore, op. cit., pp. 96, 97.

[12] L’Évangile inouï, op. cit., pp. 138, 139.

[13] Le christianisme n’existe pas encore, op. cit., p. 174.

[14] Le christianisme n’existe pas encore, op. cit., p. 175.