01/01/2021

Un tuffo progressivo del cattolicesimo nel nulla

Par l'abbé Claude Barthe

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Il processo di riforma (riforma della Curia? riforma della Chiesa?), intrapreso da papa Francesco quale sviluppo apicale dello «spirito del Concilio», ci sembra, come abbiamo detto in più occasioni, sfasato rispetto all’attuale realtà ecclesiale in due modi:
– Da una parte, tale processo va in senso opposto alle aspettative del piccolo resto cattolico, che, con molte sfumature, è identitario e reagisce al «nascondimento» dei cristiani nel mondo, ch’era la parola d’ordine del periodo conciliare.
– E d’altra parte, il tentativo di adattarsi al mondo contemporaneo, ch’esso conduce al suo apogeo, viene superato dal cattolicesimo postmoderno, così come viene teorizzato da un gruppo di teologi, che aderiscono all’ultra-modernità molto meglio di Amoris Laetitia e Fratelli tutti.

Ch’essi sposano ed in cui si dissolvono. Perché, man mano che avanza, in forme sempre nuove, il cattolicesimo liberale – la cui pretesa è quella di conformare per quanto possibile il Vangelo alla modernità, così da sentirsi autorizzato a dire la sua -, per ciò stesso perde sostanza, al punto da finire per dissolversi in esso.

Vorremmo qui fare un cenno a talune correnti od a talune opinioni teologiche «avanzate», enumerandole secondo gradazioni più o meno progressive verso il nulla religioso. Non si dovrebbe pertanto credere che, generando la matrice liberale il vuoto, tali correnti si autodistruggano, senza che vi sia bisogno di darsene pena. Sino a quando i vertici della Chiesa non useranno del proprio potere – e del proprio dovere – per tagliare i rami morti o morenti, è l’intero albero a risultarne malato come se dovesse esso stesso morire.

La disintegrazione della penitenza:
«l’eucarestia per il cristianesimo che ci attende»

Il progetto di ritrovare la comunità cristiana come «una comunità della mensa», lo si vuole molto più «avanzato». In un articolo della rivista Recherches de Science religieuse del gennaio-marzo 2019, Goffredo Boselli, dello studium del monastero di Bose, in Piemonte, che accoglie una comunità di uomini e donne di diverse confessioni cristiane, pubblica su questo tema un articolo, che cerca di «pensare una teologia eucaristica per il nostro tempo».

Si tratta di ricondurre l’eucaristia ed i suoi riti alle loro origini neotestamentarie. Come si sa, la vita di Gesù mostra molti esempi di questa lieta convivialità, ch’egli ha riservato a tutti i suoi invitati, specialmente ai peccatori. In questo condividere la tavola, all’epoca di Gesù come oggi, i commensali si riconoscono dipendenti gli uni dagli altri nella condivisione del pane come della parola.

Ma poiché Gesù ha condiviso la mensa dei peccatori, spiega Goffredo Boselli, non si può mai avere una «mensa del Signore» che non sia allo stesso tempo anche mensa dei peccatori, rendendo l’Eucarestia il luogo essenziale di misericordia. Cristo scandalizzò così i farisei dal cuore privo di misericordia sedendosi con i peccatori, tali Matteo e Zaccheo (Goffredo Boselli omette di evidenziare come ciò fosse fatto per ottenere la loro conversione, ciò che in effetti è avvenuto in casa di Matteo, Zaccheo e di altri).

G. Boselli prende in considerazione la tavola dell’Ultima Cena, che riassume il senso della comunione attorno alla mensa vissuta con i peccatori, nella misura in cui Gesù non fu circondato che da questi: Giuda che lo tradisce, Pietro che stava per rinnegarlo e gli altri, che stanno vilmente per abbandonarlo (salvo Giuda, che, solo, partecipa in modo sacrilego all’Ultima Cena, gli altri esprimono al contrario la propria volontà di non abbandonare il loro Signore – che in seguito si accerterà venir meno, ma solo dopo –. Egli risponde «perdonando l’imperdonabile» ed offrendo il calice del suo Sangue a tutti.

G. Boselli si permette, in questa personale lettura della Cena del Signore, di concludere che, avendo avuto l’Eucaristia iniziale questo valore purificatorio nei confronti dei peccatori, essa deve conservarlo nella mensa del Signore che offre la Chiesa. Certo, riconosce G. Boselli, perché il  figliol prodigo sia perdonato, occorre ch’egli «ponga un termine alla propria vita dissoluta». Ma l’amore del Padre precede il pentimento di suo figlio e «la consapevolezza della propria personale miseria porta già in sé stessa il desiderio del perdono, di una vita rinnovata». Questo desiderio Gesù lo percepisce nei peccatori, ch’Egli ha invitato alla sua mensa nel corso della sua vita, fino all’ultima, quella della Cena.

Si giunge così, mediante questa serie di sofistiche variazioni, a ciò che l’articolo voleva dimostrare: «Il cristianesimo che ci attende esigerà il riconoscimento delle condizioni morali degli individui, delle forme di vita le più svariate, stabili o temporanee, vissute da soli o insieme, anche tra persone dello stesso sesso». Riconoscimento, che è da intendersi come discernimento del desiderio di perdono tra quanti stiano per prender parte alla mensa eucaristica, quand’anche il loro desiderio di cambiar vita fosse puramente implicito: «Sarà necessario rivolger loro una parola capace di esprimere le esigenze del Vangelo ed allo stesso tempo cosciente delle fragilità umane, coniugandole senza rinnegare né le une, né le altre». Non «rinnegare» le fragilità umane… In breve, accettare che queste persone prendano parte all’eucaristia, pur restando nel loro peccato. Così «la mensa del cristianesimo che ci attende» sarà una «liturgia di misericordia».

Strana misericordia, che non dirà più al peccatore: «Va e non peccare più!», bensì: «Vieni, con la tua fragilità!».

La disintegrazione del dogma: la modernità tardiva
e l’evoluzione della dottrina dei sacramenti

Avevamo accennato, nel n. 14 di Res Novae del settembre 2019, all’importante capitolo scritto da Andrea Grillo, professore di teologia sacramentaria e liturgica all’Università Sant’Anselmo di Roma, «I Sacramenti come luogo di elaborazione di identità ecclesiale e di differenza sessuale», nell’opera collettiva Donne e uomini: il servizio nella liturgia[i].

Per ben comprendere le discussioni sul tema dell’ordinazione delle donne, bisogna aver presente come, da una parte, la ragione dell’impossibilità di procedere in tal senso sia data dalla Rivelazione, trasmessa dal magistero, e come, dall’altra, l’esplicitazione teologica venga data da quelli che si chiamano argomenti di convenienza. Questo termine di convenienza non deve indurre a credere che si tratti di argomenti deboli e discutibili: essi dipendono al contrario dal ragionamento teologico più specifico, che si sforza di mostrare la coerenza secondo la ragione e secondo la fede del mistero divino.

Quanto alla convenienza, Andrea Grillo, che si schiera a favore dell’accesso delle donne alla presidenza dei sacramenti, spiega che san Tommaso le escludeva dagli atti di culto a causa di concezioni oggi superate: il sesso femminile, trovandosi la donna in stato di soggezione, non può significare eminenza di grado[ii]. Tale ragione, offerta in maniera brusca da san Tommaso, può essere presentata in modo più accettabile per le orecchie contemporanee, invocando il simbolismo dei mezzi di salvezza apportati da Cristo-Capo al suo Corpo[iii]. Il Figlio di Dio, incarnatosi in un uomo maschio, sceglie come sacerdoti degli uomini maschi per ragioni di convenienza di natura simbolica, che è decisiva in materia sacramentale. Tali ragioni erano state esplicitate con la dichiarazione Inter insigniores del 15 ottobre 1976: «Bisogna ammettere che, nelle azioni che esigono il carattere dell’Ordinazione ed in cui viene rappresentato Cristo stesso, autore dell’Alleanza, sposo e capo della Chiesa, nell’esercizio del suo ministero di salvezza – e ciò si verifica nella forma più alta nel caso dell’Eucaristia -, il suo ruolo deve essere sostenuto (è questo il senso originario della parola persona) da un uomo».

In rapporto alla tesi magisteriale dell’autorità, la Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, di Giovanni Paolo II, che intende confermare definitivamente il fatto che le donne non possano accedere al sacerdozio, si limita in modo del tutto naturale a ricordare come il fatto di riservare in modo esclusivo l’ordinazione sacerdotale agli uomini sia stato rispettato dalla Tradizione costante ed universale della Chiesa. Con la stessa naturalezza, l’essenza dell’argomentazione di Andrea Grillo contesta il grado d’autorità dell’Ordinatio sacerdotalis. Contesta che tale Lettera possa dire, per l’appunto con autorità, che questo sia il contenuto della Rivelazione offerto dalla Tradizione costante ed universale della Chiesa, facendo perno sulle spiegazioni imbarazzate della Congregazione per la Dottrina della Fede del 28 ottobre e del 19 novembre 1995. La CDF afferma, in effetti, che Ordinatio sacerdotalis non è un pronunciamento infallibile in sé, ma riferisce semplicemente dell’esistenza di una dottrina infallibile già a monte, nel magistero ordinario anteriore. Di conseguenza, come dice A. Grillo, si resta entro il circolo in cui un documento trae la sua autorità dal fatto che si riferisca ad altri documenti, di cui esso stesso attesta l’autorità.

Ma in ogni caso di questa sorta di spiacevole rispetto umano espresso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, che, secondo una «giurisprudenza» risalente all’ultimo concilio, non osa invocare l’infallibilità della Chiesa, A. Grillo approfitta per considerare solo gli argomenti di convenienza promossi al rango di spiegazione ultima. In altri termini, egli svuota la profondità della volontà divina e riduce il dibattito ad una questione di «disciplina». Afferma anche che la Chiesa deve oggi accettare il passaggio da uno stato del mondo premoderno, in cui la teologia e la «disciplina» hanno escluso le donne da ruoli di responsabilità (ivi compreso, ciò ch’egli omette di dire, nel primo peccato, dove il dogma riserva il ruolo decisionale al padre dell’umanità), ad una ben diversa comprensione del ruolo delle donne oggi, nella tarda modernità.

Cosicché, secondo lo schema modernista spinto qui al suo culmine, il dogma si riduce ad una sorta di fotografia sociologica.

La disintegrazione del religioso:
Lo spirito del cristianesimo di P. Joseph Moingt

La riformabilità del dogma viene affermata in modo ben più radicale ancora da P. Joseph Moingt, sj, ora deceduto, nel suo libro-testamento, L’esprit du christianisme[iv], che richiama volutamente il titolo di Hegel: Lo spirito del cristianesimo ed il suo destino.

Più che il dogma intangibile, è l’idea stessa di religione che Joseph Moingt rimette in discussione, considerando la rivelazione evangelica come la rivelazione di un umanesimo nuovo, da considerarsi l’istanza critica di qualsiasi religione, compresa quella cristiana. Così, ciò che Chateaubriand ha accreditato al Genio del cristianesimo per difenderlo dall’epoca dei Lumi va, in realtà, secondo J. Moingt, accreditato «all’opera svolta nelle nostre società “post-cristiane”» e non sul fronte della religione, da cui va anzi ben distinto. All’improvviso si può riallacciare il legame tra società occidentale e cristianesimo, legame interrotto durante l’Illuminismo, che è stato in realtà generato dallo spirito del cristianesimo ed è in qualche modo più in sintonia col Vangelo di quanto non lo sia la religione che pretende di basarsi su di esso.

«Con lo Spirito noi penetriamo nella parte più segreta e più pertinente della fede cristiana, che non cessa di pensare Dio nella sua relazione col mondo e con la storia» e che non obbliga gli uomini a praticare una religione. «Per questo la fede rifiuta di riconoscersi nell’irrazionalità di una lontana tradizione, che s’imporrebbe ad essa tanto per la sua longevità quanto per la sua incomprensibilità chiamata “mistero”». Giovanni postula che l’amore è sufficiente per la salvezza; Paolo esclude la sottomissione alla legge per divenire figli di Dio. Pertanto Dio è indipendente dalle «rivendicazioni particolaristiche delle religioni».

Storicamente, tutto il problema del cristianesimo, sempre secondo J. Moingt, è stato «la svolta religiosa e sacrificale, producendosi il secondo sulla scia del primo», che ha preso o subìto nel II secolo, a causa della sua necessaria lotta contro la gnosi, la quale aveva introdotto un gran disordine, necessariamente da stroncarsi. Il cristianesimo s’è allora affermato come religione, ovvero come «culto e comunità» (Troeltsch), e sulla scorta di tale impeto si è stabilito come sacrificale, dedicato «alla celebrazione ed all’imitazione della morte di Cristo, concepita in quanto sacrificio espiatorio e riparatorio  per i peccati degli uomini».

Quanto alla dicotomia clero/laici, che ne consegue riproducendo uno spirito religioso, essa non è fedele allo spirito del cristianesimo: mai Cristo ha voluto questa mediazione improntata ad altre religioni, mediazione che ha privato i laici battezzati del loro carattere sacerdotale ad opera dei vescovi. I laici sono oggi chiamati a riprendere in mano il loro sacerdozio battesimale. Kant definiva l’epoca dei Lumi come «l’uscita dell’uomo dallo stato d’inferiorità, in cui si mantiene per sua stessa colpa». Il recupero dello spirito del cristianesimo deve avere un effetto simile: far uscire i laici dallo stato d’inferiorità, in cui dimorano volontariamente.

Ancor più fondamentalmente, se si considerasse la Redenzione, non secondo uno spirito religioso bensì riportandola alla sua origine, che è la predicazione degli apostoli, si avrebbe accesso alla «verità di ciò che è l’uomo, all’intelligenza del soggetto la più adatta a costruire un mondo umano, in cui tutti i membri si aiutino a vivere nella libertà e nella fraternità». Gesù non ha invocato la salvezza «in quanto uomo religioso, che si preoccupa per la priorità dei nostri doveri verso Dio», così come Paolo «non annunciava il Vangelo in termini religiosi», poiché l’unico precetto che insegnava era quello di portare gli uni il fardello degli altri.

Il gesuita francese spinge avanti così più che può il vecchio progetto del liberalismo cattolico. Egli pone la questione: poiché la speranza della salvezza è quella «di rendere la terra più abitabile al maggior numero dei suoi abitanti, privati dei mezzi di sostentamento, di aria buona», ecc., spetta agli uomini unirsi ai cristiani o semplicemente ai cristiani unirsi agli altri uomini? È questo, ritiene, ciò che davvero deve accadere. Ma i cristiani non hanno qualcosa tuttavia da dare agli uomini ovvero lo spirito del Vangelo? Senza dubbio, risponde il teologo, ma essi hanno ancor più da riacquisire presso gli altri uomini «ciò ch’essi hanno conservato dello spirito del cristianesimo», con cui hanno cominciato a trasformare il mondo.

In modo tale che, secondo Joseph Moingt, i cristiani, anziché lamentarsi per la scomparsa della Chiesa, debbano sentire come essa abbia ad assumere un’altra forma, al costo di una riforma profonda.

«Non è più tempo di riforme, ma di una rottura radicale»

Non è questa l’opinione di P. José Maria Virgil, religioso missionario clarettiano in Nicaragua, fautore della teologia della liberazione[v], il quale pensa che l’era delle riforme sia finita. In un articolo sulla rivista Golias intitolato «Non è più tempo di riforme, ma di una rottura radicale»[vi], ritiene che, nell’era post-religiosa in cui l’umanità è entrata, al cristianesimo non resti che una sola via d’uscita: «basta riforme, ancor meno contro-riforme, bensì qualcos’altro, il cambiamento».

Per lui, il fenomeno religioso, di cui la religione cristiana rappresenta una trasformazione, è apparso «recentemente», nel neolitico. Per tre millenni, prima della nostra era, le religioni si sono formate ed hanno condiviso il medesimo presupposto antropo-teo-cosmico, che diffonde tra l’altro l’idea di una divinità dall’«alto». Questo periodo della storia si è concluso con l’emergere e con lo sviluppo delle «società del sapere»: il cambiamento del cristianesimo, che sta avvenendo, è assimilabile ad una mutazione genetica, che trasforma l’identità biologica dell’essere vivente, per provocare un cambiamento di specie; la situazione che ne risulta può essere paragonata al naufragio del Titanic, in occasione del quale i passeggeri potevano ripiegare a poppa con l’orchestra ed affondare con la nave o, al contrario, portarsi in avanti verso le zattere verso una nuova avventura.

L’umanità, sempre secondo José Maria Virgil, sta entrando in una nuova tappa d’evoluzione biologica, «nella quale la dimensione più profonda della propria conoscenza non si esprime più sotto una forma “religiosa” o “spirituale”». La sfida attuale esige ben di più che la riforma di Lutero, nel XVI secolo, riforma che sembrerà un «gioco da ragazzi» accanto ai cambiamenti che oggi si profilano. Questa «mutazione genetica spirituale» dovrà essere all’altezza della «grande trasformazione biologica che il pianeta ed il cosmo vivono in noi».

José Maria Virgil fa volentieri riferimento al gesuita belga Roger Lenaers, autore di Un autre christianisme est possible. La fin d’une Église moyenâgeuse[vii], il quale spiega: «Non ci saranno più i doveri, né i divieti, imposti dall’esterno attraverso le religioni che potranno ispirarci». Ed ancora: «Ma, sapendoci ormai “autonomi”, vale a dire liberi, sta a noi dirigere noi stessi e prendere in mano il nostro mondo con tutti i suoi drammi, le sue strutture ingiuste e disumane, così come il pianeta che ci porta e che il nostro agire collettivo pone in pericolo». In modo tale che «noi non siamo più sotto la legge, come ripete san Paolo, ma, animati dallo spirito di Gesù, noi riconosciamo la presenza di un Abbà nel nostro stesso cuore e questi ci chiama alla libertà, alla libertà per amare». Parole, che non hanno nulla di estremamente nuovo. Possiamo inoltre notare come si tratti di un denominatore comune a tutte le teologie liberali, come abbiamo constatato di sfuggita: più o meno audaci nel cancellare il dogma, quanto alla morale eliminano tutte le frontiere del bene e del peccato.

Questo tipo di teologi è, in realtà, erede dei teologi della secolarizzazione come Dietrich Bonhoeffer («un mondo divenuto adulto»), Jean-Baptiste Metz, oppure dei teologi della morte di Dio come Thomas Altizer, William Hamilton, Harvey Cox. La principale preoccupazione di Lenaers e Virgil non è tanto quella di distinguersi dall’ateismo, bensì quella di integrarlo alla fede, ammesso che tale termine di fede possa ancora adattarsi alla loro riflessione. In maniera tale che, scrive Roger Lenaers, «una simile presentazione del pensiero e dell’azione cristiana non contenga nulla che non possa essere sottoscritto dalla modernità non teista. In questa presentazione è scomparsa la figura di un teos o di un “dio in alto”. La sola cosa che resta è il Mistero Originale, il cui nome è Amore»[viii].

È forse ancora troppo.

Don Claude Barthe


[i] Sotto la direzione di Andrea Grillo e di Elena Massimi, Edizioni Liturgiche, 2018, pp. 39-60.
[ii] Somma teologica, Supplemento, g 39, a 1.
[iii] Vedere Gilbert Narcisse, « L’ordination presbytérale : hommes et femmes ? » [L’ordinazione presbiterale: uomini e donne?], in Philippe-Marie Margelidon (sotto la direzione di), Questions disputées autour du sacrement de l’ordre [Questioni disputate attorno al sacramento dell’ordine], Artège/Lethielleux, 2018, pp. 213-241.
[iv] Temps présent, 2018.
[v] Nato in Spagna nel 1946, sacerdote dal 1971, vive in Nicaragua. Ha collaborato col Centro ecumenico Antonio Valdivieso, ha partecipato alla fondazione del Segretariato internazionale di solidarietà cristiana latino-americano (Mons. Sergio Méndez Arceo e Mons. Pedro Casaldáliga).  Ha fatto parte del gruppo di teologi Amerindia. È membro dell’Associazione ecumenica dei teologi del terzo mondo e del Forum mondiale sulla Teologia e la liberazione.
[vi] « Ce n’est plus le temps des réformes, mais d’une rupture radicale », 8 ottobre 2020,
pp. 7-8.
[vii] Un altro cristianesimo è possibile. La fine di una Chiesa medioevale, Golias, 2011.
[viii] Al is er geen God-in-den-hoge, Kapellen, 2009 – Aunque no Haya un Dios Ahí Arriba, Vivir en Dios, sin dios, Editorial Abya Yala, Quito, 2013.