Uno scisma dovuto all’autorità dimissionaria
Se immaginiamo che lo scisma latente in cui si trova la Chiesa oggi rischi di esplodere a causa di una separazione di una parte della Chiesa, ci sbagliamo: la Germania non si separerà da più di quanto non lo abbia fatto l’Olanda alla fine degli anni Sessanta. Perché si verifichi uno scisma, è necessario, come quasi sempre è accaduto nella storia, che coloro che sono naufragati nella fede siano dichiarati esclusi dalla comunione dall’autorità ecclesiastica, quella dei vescovi, del Papa. Ora, e questo è il punto della situazione tragica, tale condanna c’è più. In questo sta lo scisma di oggi.
L’astensione dalla condanna causa lo scisma
Questa astensione nel condannare conduce ad uno scisma differente rispetto a quelli del passato. Nella vicenda del Sinodo tedesco, di cui ci parla padre Perrot in questo numero, possiamo purtroppo presumere che si cercheranno soluzioni abbastanza simili a quella trovata nel 2018 per i coniugi di matrimoni tra persone di diversa fede religiosa. La Congregazione per la Dottrina della Fede ha riunito rappresentanti dei vescovi sia a favore che contro la partecipazione all’Eucaristia, per non dare alcun tipo di soluzione, chiedendo loro di trovare da soli « un accordo il più possibile unanime ». Questa astensione è una sorta di rassegnazione dell’autorità ecclesiastica che rifiuta di prendere una decisione: positivamente facendo affermazioni che si riferiscono direttamente o indirettamente al carisma dell’infallibilità nei casi in cui la condotta del popolo cristiano lo esige; negativamente – che è in realtà la stessa cosa – dispensando dalla condanna coloro che si discostano dalla confessione di fede.
Ora, la questione su cui agisce l’autorità apostolica è, in un certo senso, la confessione di fede di ciascuno dei battezzati, in parole e azioni. Oggi, di fatto, l’autorità ha abbandonato il ruolo di strumento di unità (almeno l’unità in senso classico), e si presenta al contrario come gestore di una certa diversità. Sembra considerare la sua funzione come quella di federare piuttosto che di unire.
Sarebbero necessari volumi e biblioteche per rivedere gli errori dottrinali pubblici, provati e confermati da parte di pastori, teologi, professori, gruppi cristiani di ogni tipo. La cosa più grave è che la libera espressione dei propri sentimenti in materia di fede e di morale sembra divenuta una libertà fondamentale di ogni cattolico. In realtà, non si tratta tanto di eresia, quanto di relativizzazione del dogma alla maniera modernista. E la relativizzazione è resa più grave dal fatto che queste sfide al Credo si esprimono in modo pacifico e libero. Per mezzo secolo, salvo rari o marginali casi, non è stata pronunciata nessuna sentenza di esclusione dalla Chiesa per eresia da parte delle autorità gerarchiche episcopali o romane. Nella migliore delle ipotesi, in alcuni casi, c’è stata una « notifica » di errori, come nel famoso caso del gesuita Dupuis e delle sue eresie riguardanti Cristo e la Chiesa, unica via di salvezza (notifica del 24 gennaio 2001), alle quali ha risposto anche l’istruzione Dominus Jesus, del 6 settembre 2000, sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa.
In passato, infatti, ci sono stati periodi caratterizzati da un ribollire di errori, se non così gravi, a volte piuttosto drammatici. Ma oggi la diversità non sta esplodendo: i fedeli, i sacerdoti, i cardinali, possono esprimere pareri divergenti su punti di fede o di morale un tempo considerati fondamentali (l’indissolubilità del matrimonio, per esempio) ma essere tutti ritenuti comunque cattolici. La conseguenza è che il dogma diventa facoltativo.
Dall’unità di fede al federalismo delle credenze
L’ecumenismo diviene dunque uno stampo per modellare un nuovo modo di confessare la fede, non più nell’unità, ma nella diversità. Il cardinale Kasper, quando era presidente del Consiglio per l’unità dei cristiani, ha rilasciato questa fondamentale dichiarazione, che faceva eco a quella del suo predecessore Willebrands: « Intendiamo l’ecumenismo oggi non più nel senso dell’ecumenismo di ritorno, secondo il quale gli altri devono « convertirsi » e diventare « cattolici ». Questo è stato espressamente abbandonato dal Vaticano II. […] Ogni Chiesa ha le sue ricchezze e i suoi doni dello Spirito, ed è una questione di scambio, e non che noi dobbiamo diventare « protestanti » o che altri devono diventare « cattolici » nel senso della forma confessionale del cattolicesimo. » (Intervista sulla rivista austriaca Die Furche, 22 gennaio 2001)
Le conseguenze esterne di tale principio di « unità » sono ovviamente disastrose per la missione della Chiesa, ma ancora più disastroso è il fatto che questo principio venga applicato internamente: ad extra, tale passo ha l’effetto primario di modificare l’essere ecclesiale dei cattolici (fede, senso di comunione) e non quello dei separati; ad intra, allo stesso modo, modifica l’essenza cattolica di coloro che rimangono fedeli al Credo (la loro fede diventa un’opzione) e non di coloro che lo trasgrediscono. Ciò significa che un’autorità che federa la diversità delle credenze all’interno della Chiesa tende a sostituire un’autorità che regola l’unità nella fede. Questa diversità è tenuta insieme dal fatto che l’antica matrice della regula fidei è sostituita da una matrice ecumenica, la pretesa della pluralità nell’unità.
Questo fenomeno di organizzazione della convivenza delle opinioni è uno degli aspetti dell’osmosi della vita ecclesiale di oggi e del funzionamento della moderna società democratica, richiesto in particolare dal Sinodo tedesco. È inoltre proprio in materia di sinodalità e di concili che il meccanismo del governo di opinione è più facilmente applicabile alla vita della Chiesa, come abbiamo già scritto (Res Novæ n. 3, novembre 2018, « A cosa serve il Sinodo dei vescovi?”). Le assemblee regolari del Sinodo entrano nel gioco della costruzione del consenso, che si sovrappone all’obbedienza tradizionale della fede, il cemento della comunione con Cristo. Quando la linea romana era conservatrice, il consenso era, ad esempio, a favore del celibato sacerdotale (assemblea del 1971); quando è diventata liberale, il consenso ha aperto i sacramenti ai coniugi adulteri (assemblee del 2014 e del 2015).
Inoltre, da un punto di vista istituzionale, non c’è bisogno di insistere sul ruolo potente svolto dalle Conferenze episcopali nella trasformazione dell’autorità nella Chiesa. Al contrario, lo stampo delle Conferenze episcopali, con il pretesto di riabilitare l’autorità dei vescovi di fronte alla « centralizzazione » romana, ha affossato la loro personale responsabilità di Successori degli Apostoli in un regime di assemblee, segretariati e uffici. Il centralismo tuttavia non scompare, anzi aumenta. Il modo di governare della Chiesa, in verità oggi più autoritario che mai, ricorda quello dei regimi democratici attuali, dove il capo di Stato o di governo ha un potere quasi monarchico (cfr.: Res Novæ n. 12, ottobre 2019), se non fosse che non è al servizio del bene comune tradizionale, nello Stato, né a servizio dell’unica fede, nel caso della Chiesa.
La necessità di atti concreti di rifiuto, l’innesco di crisi cattoliche
Quando lo scisma latente diventerà un giorno uno scisma vero e proprio, l’esclusione quindi non avverrà tanto sul livello primario dello sgretolamento del Credo, quanto nelle vecchie fratture; sarà un’esclusione di coloro che rivendicano una Chiesa plurale e affermano la relatività del dogma. Non ci sarà scisma tra coloro che credono, per esempio, che il matrimonio sacramentale sia indissolubile, e coloro che ammettono eccezioni, o tra coloro che ritengono che solo gli uomini possano avere accesso agli ordini sacri e coloro che credono che anche le donne possano avervi accesso, ma ci sarà uno scisma tra coloro che credono che non si può essere cattolici negando questo o quell’elemento della confessione di fede, e coloro che ritengono che si possa essere cattolici sia ricevendolo che negandolo. In altre parole, la rottura che dovrà avvenire prima o poi sarà una separazione tra una Chiesa cattolica ecumenica e una Chiesa cattolica senza altri requisiti.
E’ proprio il federalismo a dover essere spezzato per porre fine a questo scisma latente. È questa convivenza innaturale tra l’ecclesialità federale e l’unità in Gesù Cristo, devastante per la salvezza delle anime, che dovrà essere rovesciata. Questo può avvenire solo attraverso l’intervento della Chiesa docente, del Papa e dei vescovi uniti a lui. In effetti però siamo apparentemente molto lontani da questa ipotesi, in quanto il mantello del conformismo soffocante impedisce qualsiasi desiderio di agire contro l’ideologia dominante. Eppure la libertà cristiana è come un detonatore straordinario. Non ci sono più di 5.000 vescovi nel mondo? Una qualche manifestazione espressa, con atti concreti, del « chi ascolta te, ascolta me », emanata da un certo numero di essi, o da una manciata, o anche solo da poche unità, potrebbe determinare una vibrazione di grande intensità.
Quando, dopo la promulgazione di Amoris latitia, alcuni vescovi – in verità pochissimi – dichiararono chiaramente che nulla era cambiato nelle loro rispettive diocesi in materia di disciplina sacramentale e, soprattutto, che non si poteva concedere l’assoluzione e la comunione ai divorziati « risposati » che permanevano nel loro stato peccaminoso, si verificò necessariamente una divisione tra coloro che seguivano le loro istruzioni e coloro che le ignoravano. Il risultato normale avrebbe dovuto essere la spiegazione da parte di questi vescovi del loro rifiuto di seguire la falsa dottrina, la predicazione corretta sulla dottrina evangelica del matrimonio e l’azione disciplinare contro i sacerdoti e i fedeli trasgressori.
In qualsiasi materia ecclesiastica, ogni intervento gerarchico – che dovrebbe seguito dalle dovute e salutari esclusioni di coloro che permangono nell’errore – non può che provocare crisi, resistenze e manifestazioni ostili, non solo nella Chiesa particolare considerata, ma anche a livello della Chiesa universale. Ciò è naturale, poiché ogni vescovo partecipa all’ufficio comune della Chiesa in virtù della divina istituzione e dei doveri del suo ufficio apostolico, essendo ognuno responsabile della Chiesa, insieme agli altri vescovi (Christus Dominus, n. 6): ciò che interessa una Chiesa particolare è infatti importante per la Chiesa universale. Di fatto, molte volte nella storia della Chiesa abbiamo visto un vescovo condannare, in nome della sua autorità di Successore degli Apostoli, un’eresia che si diffondeva ancora prima che lo facesse il Papa o un Concilio.
Il disordine che inevitabilmente scaturirebbe dall’intervento mirato, osiamo dire, di uno o più vescovi al servizio dell’unità della fede, sarebbe solo un disordine apparente: sarebbe uno scandalo medicinale che, in realtà, svelerebbe il vero scandalo, quello dell’eterodossia che corrompe tutto il Corpo. Più che affermazioni generali, più che posizioni teoriche destinate a portare a un’opinione ecclesiastica, ma senza conseguenze effettive, la Chiesa ha bisogno di atti concreti di rifiuto del male e dell’errore. Ad esempio, nell’ambito della difesa della libertà della Chiesa, durante il divieto di culto dovuto all’epidemia in molti Paesi, ci sono state belle dichiarazioni episcopali, ma la decisione dei vescovi del Minnesota di riprendere il culto pubblico senza tener conto delle direttive del governatore ha avuto un peso infinitamente maggiore. Si potrebbe pensare che se, per difendere la fede e il rispetto dell’Eucaristia, un vescovo chiedesse ai suoi sacerdoti di tornare alla disciplina della comunione in bocca, l’effetto sarebbe notevole in caso di opposizione da parte di alcuni sacerdoti, e di crisi aperta. Allo stesso modo, se venisse imposto l’orientamento delle celebrazioni verso il Signore. Co piace anche immaginare – è del tutto lecito avere sogni cattolici – un vescovo che stigmatizzi le osservazioni eterodosse di uno dei suoi colleghi vescovi.
Certo, fare questo tipo di riflessione può sembrare vano, o anche disperato, tanto che è difficile immaginare, in un cattolicesimo senza nervi né muscoli, che i prelati responsabili delle anime possano avere una forza d’animo sufficiente a prendersi carico dello scoppio di crisi cattoliche di questa natura che li metterebbe ai margini della maggior parte dei loro confratelli (e dei loro sacerdoti e della maggior parte dei fedeli della loro diocesi: vedi Mons. Haas, quando era vescovo di Coira). Eppure, non c’è alcun dubbio che la grazia di Cristo possa toccare potentemente il cuore di coloro che sono stati chiamati da Lui a succedere ai suoi Apostoli per la salvezza della sua Chiesa.
Don Claude Barthe