01/04/2023

Storia della difficile gestazione di Humanæ vitæ

Par l'abbé Jean-Marie Perrot

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Tra i testi comunicati ai Padri dalla Commissione preparatoria prima dell’apertura del concilio Vaticano II, ve n’era uno, che rifletteva la dottrina tradizionale sul matrimonio, così come esplicitata da Pio XII negli anni precedenti. Ma tale testo ha risentito del rifiuto degli schemi preparatori ad opera dell’assemblea conciliare e non è stato mai discusso. Nell’ottobre 1964, un nuovo testo è stato presentato al dibattito pubblico, all’interno dello schema XIII, che sarebbe sfociato poi nella costituzione Gaudium et spes.

L’offensiva «progressista» e l’intervento di Paolo VI al Concilio

In concreto, il testo è apparso «aperto», in quanto non riprendeva, di suo, la tradizionale gerarchia dei fini del matrimonio, gerarchia che subordinava il bene degli sposi alla fecondità. Il tema del matrimonio, così come altri, ha suscitato interventi risoluti e accesi. Così ha dichiarato il card. Suenens: «Vi supplico, fratelli. Evitiamo un nuovo “processo a Galileo”. Uno solo è sufficiente per la Chiesa». Si trattava, secondo lui, di elaborare un nuovo concetto di natura, in cui alla «crescita nell’unità coniugale» fosse accordato un posto «altrettanto imperativo» quanto quello accordato al tradizionale fine primo del matrimonio, quello della procreazione. Da parte sua, il cardinale Léger invitava a privilegiare, nel giudizio morale, «lo stato stesso del matrimonio» e di meno gli atti considerati nella loro singolarità. Quanto allo scollamento tra l’insegnamento del magistero e la pratica delle famiglie cristiane contemporanee, questo era stato sottolineato dal patriarca Maximos. Vi furono alcuni interventi, che si opposero, certo, a questi appelli ad una riforma della morale coniugale, ma furono minoritari.

Fu allora che, tramite una lettera del segretario di Stato, il cardinal Cicognani, Paolo VI chiese che si tenesse conto di quattro modi. Vi fu grande subbuglio sia riguardo alla sostanza delle richieste sia riguardo il loro carattere imperativo. Il primo dei modi richiedeva la seguente precisazione: «i mezzi anticoncezionali devono essere menzionati con riferimento a Casti connubii». Il secondo ristabiliva, benché in modalità minore, una distinzione tra i fini del matrimonio con la soppressione della parola «anche» in una frase del testo votato: «Il vero amore coniugale… tende anche a far sì che gli sposi siano pronti a cooperare all’amore del Creatore e del Redentore, che attraverso di loro amplia ed arricchisce ogni giorno la sua famiglia». Il terzo e il quarto volevano ricordare il carattere obbligatorio ed imperativo delle decisioni assunte dalla Chiesa pronunciandosi, così come la necessità della castità coniugale per superare le difficoltà. Secondo Padre Bernhard Häring, celebre autore del manuale di morale La loi du Christ [La legge di Cristo], poco sospettabile di conservatorismo, ma un poco stupefatto dagli intrighi anti-papali del «partito belga» (particolarmente attivo su questo tema), Paolo VI non fece altro che ristabilire il vero pensiero dei Padri, ciò che quanto scritto dal comitato di redazione aveva distorto in modo parziale ed eccessivo. Una mediazione, se così si può dire, fu condotta da mons. Garrone, il quale ottenne che le richieste di Paolo VI fossero sottoposte a discussione. Nel suo Journal du concile [Giornale del concilio], Padre de Lubac scrisse d’esser rimasto colpito dall’umiltà di Paolo VI, quando accettò questo compromesso, in un momento in cui regnava un’atmosfera pesante e talvolta tempestosa.

Alla fine, ci fu un testo di compromesso, come lo sono altri documenti conciliari, che i Padri hanno approvato e ratificato definitivamente: «Un amore coniugale vero e ben inteso, così come l’intera struttura della vita familiare che ne deriva, tendono, senza peraltro sottovalutare gli altri fini del matrimonio, a rendere gli sposi disponibili a cooperare coraggiosamente all’amore del Creatore e del Salvatore, che, attraverso di loro, vuole costantemente ampliare ed arricchire la propria famiglia» (Gaudium et spes, n. 50 §1). Un testo di compromesso, ma, forse soprattutto, dottrina o discorso (perché c’è materia di dottrina?, sostenevano alcuni) in attesa di una parola, quella di Paolo VI, che si era riservato il caso. Papa Paolo VI, in effetti, ha affidato il tema della regolazione delle nascite ad un gruppo di lavoro, presto una Commissione (già all’opera, con discrezione, da diversi mesi) e indicò come la decisione fosse a lui riservata. La costituzione pastorale Gaudium et Spes lo indicava, del resto, alla nota del paragrafo 51: quindi non si sapeva se la contraccezione chimica facesse parte o meno delle «vie che il Magistero disapprova».

Com’è andata a finire? Ad una manipolazione del concilio da parte di Paolo VI, come lamentavano alcuni? o del papa ad opera di una minoranza influente, secondo altri? Si è visto cosa ne pensasse Padre Häring; per Hans Küng, v’era là un esempio di permanenza dell’«assolutismo pontificio», che si sarebbe autodistrutto, del resto, qualche anno più tardi con la caricatura del «papa della pillola», ingiusta ma non del tutto immeritata.

La Commissione pontificia conquistata al fronte del cambiamento

Che cos’era dunque questa Commissione, di cui si suppone che il papa dovesse seguire le raccomandazioni? Inizialmente ridotta a sei membri, s’accrebbe successivamente di altri sette, poi di una quarantina d’esperti, tanto sacerdoti quanto laici, in tutte le discipline; ed, alla fine, di sedici cardinali e vescovi, incaricati di supervisionare i lavori e di condurli a termine.

Una volta saputo dell’esistenza della Commissione, il dibattito s’amplificò all’esterno, soprattutto perché fughe di notizie rivelarono alcuni documenti interni alla Commissione stessa come una chiara evoluzione della stragrande maggioranza dei membri a favore di un cambiamento nel linguaggio della Chiesa. Eppure, all’inizio, la sua composizione sembrava rappresentare diverse tendenze.

Ma è davvero così sorprendente? Hans Küng aveva ragione quando, ricevuto dal papa il 2 dicembre 1965, ha sostenuto che la grande maggioranza dei teologi – e che dire dei fedeli… – fosse a favore di un «avanzamento» alquanto sensibile. Se Padre Labourdette, uno dei tomisti della Commissione, era entrato in detta Commissione riluttante ad un’evoluzione per diventarne in seguito sostenitore, personalità di grande rilievo come Jacques Maritain, Charles De Koninck, Padre Journet e Padre Cottier erano già di quest’opinione. Anche se c’è da chiedersi – almeno alla luce dei testi del secondo e del quarto – se avessero ben capito cosa fosse la pillola contraccettiva, collocandola ben volentieri accanto ai metodi naturali di regolazione e distinguendola dagli altri mezzi contraccettivi artificiali. Il fatto che la pillola sia apparsa quasi in concomitanza coi loro testi spiega forse quest’oscillazione.

Infine, quando la Commissione ha concluso i suoi lavori nel giugno 1966, la partita sembrava vinta dal partito del cambiamento. I prelati han dovuto rispondere, in particolare, a due domande. La prima era: «È certa l’illiceità intrinseca di tutti gli interventi contraccettivi?»; quanto alla seconda, è stata formulata così: «La liceità dell’intervento contraccettivo, nei termini utilizzati dalla maggioranza dei teologi esperti della Commissione, può essere detta in continuità con la Tradizione e con le dichiarazioni del Magistero supremo?». Con una larga maggioranza di nove voti tanto all’una quanto all’altra domanda (più alcune astensioni, interpretate come più vicine alla maggioranza), essi hanno risposto di no alla prima e di sì alla seconda.

L’enciclica della discordia

Il tempo impiegato da Paolo VI per condannare la contraccezione chimica (quasi tre anni) viene talvolta paragonato a quello impiegato da Pio VI per condannare la Costituzione civile del Clero (otto mesi). Nel primo caso i tempi della titubanza sono stati più lunghi e quanto più difficile è stata la «sconfessione» dei coniugi, che avevano adottato tale pratica.

Nel luglio 1968, l’enciclica Humanæ vitæ prese in effetti in contropiede tali conclusioni, oltre alla pressione mediatica, giunta sia da parte di organi cattolici come l’Ami du Clergé [L’amico del clero], che s’era fatto, del resto, zelante propagatore dei richiami all’ordine verso il Sant’Uffizio durante tutta la prima metà del secolo, sia da parte di pubblicazioni laiche come France-Dimanche, che il 16 luglio 1964 titolava: «Santo Padre, deve autorizzare la pillola».

Sembra che, a convincere Paolo VI, sia stato un rapporto presentato dal cardinale Ottaviani a nome della «minoranza»: questa dottrina, sosteneva, era stata presentata in maniera costante ed universale almeno dal 1816, data della prima risposta del Sant’Uffizio ad una domanda sull’argomento, qualunque fosse il mezzo utilizzato per impedire la fecondità dell’atto coniugale. Da allora, non si trattava di discutere del carattere infallibile o meno dell’enciclica Casti connubii di Pio XI, bensì di prender atto della continuità dell’insegnamento del magistero ordinario. La posizione tradizionale doveva essere accolta come una verità morale irreformabile.

Non è certo che, nella storia della Chiesa, vi sia stato un testo magisteriale accolto peggio, tanto denigrato e poco obbedito, ed alla fine così presto (volutamente) dimenticato, dell’enciclica Humanæ vitæ.

Se l’Africa e l’America latina ed, in misura minore, l’Asia gli riservarono un’accoglienza molto positiva, gli episcopati dei Paesi occidentali, con poche eccezioni (come la Spagna, l’Italia), rimasero quanto meno imbarazzati. Non era possibile opporsi frontalmente al documento; si cominciò pertanto ad evidenziare le osservazioni dispiaciute relative a fedeli disorientati dal testo: non fedeli già conquistati dal mondo, bensì coloro che si sforzavano di vivere seriamente la propria fede e che venivano gravati di un fardello per taluni insopportabile. Di conseguenza, in nome della sollecitudine pastorale verso tutti, ma soprattutto verso costoro, si sosteneva certamente l’enciclica, invocando però la possibilità per le famiglie di assumere in coscienza una decisione in disaccordo col discorso magisteriale, eventualmente su consiglio di un confessore attento e benevolo.

La nota pastorale dell’episcopato francese, pubblicata nel novembre 1968, seguiva questa linea: legittimava la divergenza con la dottrina espressa nell’enciclica ricorrendo alla nozione di conflitto di doveri: non potendosi evitare uno dei due mali (o l’armonia di coppia, qualora si accetti la dottrina, o la disobbedienza, qualora la si rifiuti), «gli sposi si decideranno, al termine di una riflessione comune condotta con tutta la cura richiesta dalla loro vocazione coniugale»; e, se la scelta fosse quella della contraccezione, essi non manchino di restare disponibili alla chiamata di Dio, in una situazione differente. Così, senza rappresentare un bene, la decisione assunta dagli sposi di ricorrere alla contraccezione rimarrebbe un disordine, ma «non colpevole»…

Don Jean-Marie Perrot