01/11/2021

Sul baccano teologico e sulle dimissioni del papa

Par l'abbé Claude Barthe

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Le dimissioni di Benedetto XVI, nel febbraio 2013, resteranno uno dei principali eventi del post-Vaticano II, forse anche un evento-chiave, avendo senza dubbio un valore esplicativo, che oltrepassa le motivazioni di papa Ratzinger.

Nel ventesimo numero di Res novæ, nel giugno 2020, abbiamo parlato della strana situazione creatasi nella Chiesa per l’assenza di condanne di eresia. Abbiamo fatto l’esempio tedesco dei coniugi di matrimoni confessionali misti, desiderosi di ricevere insieme l’Eucaristia, esempio ben più grave delle provocazioni del Cammino sinodale tedesco: la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva riunito i rappresentanti dei vescovi favorevoli ed ostili alla concessione per dir loro… che Roma non decideva niente e che chiedeva loro di trovare al proprio interno «un accordo il più unanime possibile». L’autorità ecclesiastica si rifiuta di emettere una sentenza: positivamente, mediante enunciati che si riferiscono direttamente o indirettamente al carisma dell’infallibilità nei casi in cui la condotta del popolo cristiano lo reclami; negativamente – ciò ch’è poi nei fatti la stessa cosa -, dispensandosi dal condannare coloro che si allontanano dalla confessione di fede. De facto, l’autorità si astiene dallo svolgere il ruolo di strumento d’unità (almeno di unità in senso classico) e si presenta come gestore di una qualche diversità. Non si tratta di una sorta di dimissioni morali, la cui possibilità è stata mostrata da quelle attuate da Benedetto XVI?

D’altronde è apparsa, dopo questo concilio-terremoto ch’è stato il Vaticano II, una serie di fiction, aventi per tema precisamente quello delle dimissioni del papa. Non sono, queste, espressione di una sorta di incubo, che ormai abita nell’inconscio collettivo cattolico? Ne ricorderemo tre.

Nel 2011 il film di Nanni Moretti, Habemus papam. Il card. Melville (Michel Piccoli) viene eletto, ma cade immediatamente in depressione e l’annuncio della sua elezione viene ritardato. Dopo diversi episodi (viene condotto da una psicanalista, poi ritrovato in un teatro), appare finalmente al balcone di San Pietro per rifiutare tale responsabilità: «Io non sono il capo, di cui voi avete bisogno», mentre in piazza San Pietro ed in tutta la Chiesa cade il silenzio.

Nel 1998 era uscito il libro di Jacques Paternot e Gabriel Veraldi, Le dernier pape[1], romanzo di fantasia, molto ben costruito benché l’immoralità sia fin troppo presente; racconta come, dopo la morte di Giovanni Paolo II, un cardinale brasiliano sia stato eletto papa col nome di Matteo I. Egli permette ai preti di sposarsi, la contraccezione, il sacerdozio femminile, l’accesso alla Comunione per i divorziati risposati. Dopodiché non gli resta altro da fare che tirare le conclusioni di tutti questi atti «magisteriali»: riunisce un concilio per completare il Vaticano II, concilio che abolisce il pontificato sovrano.

L’opera più curiosa e più datata di questo genere è un romanzo di Guido Morselli, Roma senza Papa[2], scritto nell’immediato post-Concilio, tra il 1966 ed il 1967 (tutti i romanzi di Morselli vennero rifiutati dagli editori ed apparvero solo dopo il suo suicidio, nel 1974). Si tratta innanzi tutto chiaramente dell’espressione del profondo trauma provocato dal Vaticano II. La storia, presumibilmente raccontata da don Walter, prete svizzero sposato, di tendenza tradizionalista (indossa la talare), si svolge nell’anno 2000. Al papa seguito a Paolo VI, Libero I (abolizione del celibato ecclesiastico, decisioni del pontefice sottomesse all’approvazione del Sinodo, ecc.), succede Giovanni XXIV, sotto il quale si prosegue il grande nulla: dei teologi parlano di «socialidarianismo», dell’introduzione del totemismo nella pratica religiosa; si insegna in dialogologia che il silenzio è la forma più completa di dialogo interreligioso; dei giovani sacerdoti marciano con una fascia nera al braccio per proclamare la teologia della morte di Dio; uno studente dell’Università Gregoriana, destinato al professorato, è ateo (l’idea di Dio è soggettiva), ciò che non infastidisce i suoi superiori; ecc.

Di fatto, ed è questo il tema dell’intero libro, Giovanni XXIV non esercita più il proprio ruolo e, per evidenziare questo, egli ha lasciato Roma e si è insediato in una residenza stile locanda o motel a Zagarolo, a 30 chilometri dall’Urbe, ove conduce una vita che Morselli qualifica come bucolica e che oggi diremmo ecologica.

Al termine del romanzo, quando don Walter lo incontra con un gruppo di dodici sacerdoti, il papa tiene un breve discorso improvvisato, che si potrebbe paragonare oggi ad un’omelia di Santa Marta, sul tema: Dio non è prete. Insegnamento ambiguo, che può esprimere una pura evidenza o, al contrario, mirare al sacerdozio di Cristo, la cui umanità viene assunta dalla Persona divina del Verbo, e di colpo sostenere la più radicale delle declericalizzazioni: Cristo non è un sacerdote.

Insegnamento non infallibile, poteva considerare don Walter, come noi possiamo dirlo con sollievo dell’Amoris lætitia n. 301 (chi vive in condizioni di pubblico adulterio può rimanerci senza commettere peccato grave) o della Nostra Ætate n. 2 (la Chiesa rispetta le religioni non cristiane). Insegnamento che pertanto non insegna in senso stretto e che rappresenta di fatto una sorta di rinuncia comparabile a quelle immaginate in queste fiction. Eppure insegnamento che insegna comunque, in mezzo ad un baccano teologico molto simile a quello descritto in queste stesse opere di fantasia.

Don Claude Barthe


[1] [L’ultimo papa], L’Âge d’Homme.
[2] Adelphi, Milano, 1974.