01/01/2022

Una teologia ed una prassi della morte del sacerdozio

Par l'abbé Claude Barthe

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«La Chiesa è senza fiato»: è questo il messaggio, in parte corrispondente alla realtà, in parte inventato, che un intenso battage mediatico sugli scandali dovuti ad abusi sessuali intende diffondere in Francia, Germania ed altrove. E il messaggio continua: la Chiesa deve dunque riformarsi strutturalmente, purificandosi da ogni clericalismo con modalità di funzionamento più democratiche, più sinodali.

Non si tratta di negare che il clericalismo sia nefasto, qualora lo si intenda come l’arroganza di taluni sacerdoti, che dimenticano come la loro «parte d’eredità», kleros in greco, sia prima di tutto il ministero ed il servizio. Ma il termine, utilizzato come uno slogan ed in modo dispregiativo, riecheggia in realtà i principi ideologici della società moderna, sempre più secolarizzata. E come ai tempi di Gambetta e del suo grido «Il clericalismo, ecco il nemico», è il sacerdozio cattolico ad essere preso di mira.

Una teologia per cancellare il sacerdozio

Come abbiamo conosciuto i teologi della morte di Dio, che sostengono «religiosamente» l’ateismo o l’agnosticismo contemporaneo[1], così potremmo parlare di una teologia della morte del sacerdozio, che offre una garanzia «cattolica» alla cancellazione appunto del sacerdozio nella società. I teologi, che se ne occupano, analizzano due tipi di riflessione, che non si escludono ma si completano a vicenda.

  • La prospettiva sinodale consiste nel far sì che il presbiterato e l’episcopato siano per il popolo della Chiesa locale concreta e che emanino da esso. Padre Hervé Legrand O.P. è un buon esponente di tale obiettivo[2]. È opportuno uscire dal ruolo amministrativo che ha ricoperto, secondo lui, un clero burocratizzato e ritrovare la sua concezione tradizionale, ciò che gli si accorderà di buon grado, salvo confrontarsi sulla maniera di ritornare alla tradizione. Da parte sua, vorrebbe recuperare il modello dell’organizzazione ecclesiastica dell’inizio del III secolo, come lo si può immaginare tramite la Tradizione apostolica d’Ippolito di Roma. La Chiesa locale, spiega, era una comunità presieduta da un vescovo, unico vero sacerdote, circondato da alcuni preti, che non erano ancora sacerdoti. Questa comunità sceglieva il suo pastore, al quale non era richiesto uno stato di vita speciale (celibato). Secondo Hervé Legrand, si potrebbe tornare a questa organizzazione, ispirandosi al modo in cui si sceglievano i diaconi permanenti: la Chiesa locale s’interrogherebbe sul  tipo di pastori di cui necessiti, li chiamerebbe e fornirebbe loro una formazione locale in linea con la cultura ed i bisogni concreti, senza obbligarli necessariamente al celibato. I pastori, in questa prospettiva sinodale, nascerebbero praticamente dal Popolo di Dio per accompagnarlo nella sua missione ed il sacerdozio ministeriale apparirebbe come un’emanazione ed un servizio del sacerdozio dei fedeli.
  • La prospettiva della «pluriministerialità» (Henry-Jérôme Gagey, Céline Baraud) cerca di integrare, per non dire di soffocare, il sacerdozio in un pullulare di ministeri laici originati dai carismi del Popolo di Dio[3]. All’origine di tale prospettiva v’è un articolo di Padre Joseph Moingt, S.J.: « L’avenir des ministères dans l’Église catholique »[4], che parlava della possibilità di «distribuire ad altri ministri, ed in particolare ai laici, la totalità o parte delle funzioni fin qui esercitate dai sacerdoti».

Padre Christoph Theobald, S.J., che svolge attualmente un ruolo molto attivo nelle commissioni preparatorie del Sinodo sulla sinodalità, con teologi quali Arnaud Join-Lambert (Svizzera), Alphonse Borras (Belgio), Gilles Routhier (Québec), immagina così il futuro[5]: in Europa occidentale, i rarissimi sacerdoti di domani dovranno essere «preti-traghettatori», per la maggior parte del tempo itineranti, educheranno i cristiani alla fede, faranno maturare il loro senso di responsabilità, poi s’eclisseranno; dei ministri laici stabili li sostituiranno sul territorio ed assicureranno una «presenza della Chiesa» nel governare le comunità, nel servizio della Parola (predicazione, catechesi, animazione della liturgia, ascolto, che potrebbe tra l’altro sorpassare o sostituire il sacramento della penitenza), nell’ospitalità (accoglienza, incontri). I «preti-traghettatori» potranno d’altronde essere individuati e scelti dalle comunità tra coloro che garantiranno questi ministeri plurali. E piuttosto di una formazione specializzata nei seminari, l’insieme di questi attori e l’insieme della comunità potranno beneficiare di una formazione permanente.

Una laicizzazione del personale ecclesiastico

Il Vaticano II, concilio per definizione molto innovativo poiché voleva andare oltre la dottrina tridentina, è stato un concilio di accomodamento tra progresso e tradizione nei testi, «aggiustati», come dice lo storico Yvon Tranvouez, per riportare un’adesione quasi unanime.

L’insegnamento ed il governo politico, seguiti al Concilio, quale che sia l’orientamento del potere romano, montiniano, wojtylo-ratzingeriano o bergogliano, sono stati transazionali: si è sempre trattato di dare garanzie all’«apertura» o al contrario di praticare un «ricentramento», ma senza eccessi né da una parte né dall’altra per evitare, nei due casi, di far esplodere in qualche modo la macchina conciliare. Ciò non toglie che la secolarizzazione del personale ecclesiastico, e dunque la cancellazione del sacerdozio, pur essendo meno radicali di quanto si augurassero le correnti teologiche sopra menzionate, siano comunque molto reali.

In primo luogo, c’è questo fatto massiccio, che cioè l’«apertura» operata dal Concilio sia stata intesa dal clero come tale da implicare, senza che neppure avesse luogo una discussione, l’adattarsi alla secolarizzazione della società. Secolarizzazione clericale, che aveva d’altronde, soprattutto all’inizio, considerevolmente accelerato la secolarizzazione sociale. Da qui l’abbandono dell’abito ecclesiastico, ed in forma più grave i numerosi abbandoni dello stato ecclesiastico, la trasformazione della vita religiosa col conseguente prosciugamento di vocazioni dovuto ad una perdita di senso di detto stato agli occhi dei giovani cattolici.

Per quanto riguarda le decisioni romane relative al governo (pertinenti l’auctoritas gubernandi), che hanno per forza di cose un aspetto dottrinale (facultas docendi), esse sono state liturgiche e istituzionali.

Così Paolo VI, guidando e poi applicando il Vaticano II, pur mantenendo con fermezza il principio del celibato sacerdotale (enciclica Sacerdotalis Cælibatus del 24 giugno 1967), ha assunto tre scelte pesanti:

  • Istituendo, con Lumen gentium n. 29, contrariamente all’antica disciplina del celibato, un diaconato come grado gerarchico proprio e permanente, per uomini eventualmente sposati e non destinati al sacerdozio. Assai vicino al sacerdozio s’è formato così del personale sociologicamente più laico che clericale, che non cessa di crescere (in Francia, dal 2000 al 2019, il numero dei diaconi permanenti è pressoché raddoppiato, passando da 1.499 a 2.794, mentre il numero dei preti in attività è sceso da 5.000 a 3.000).
  • Abrogando col motu proprio Ministeria quædam del 15 agosto 1972 il sottodiaconato e gli ordini minori e rimpiazzandoli coi semplici ministeri istituiti del lettorato e dell’accolitato, i cui destinatari restano semplici laici[6]. A ciò si aggiunse la distribuzione della comunione ad opera di laici, uomini e donne (istruzione Immensæ caritatis del 29 gennaio 1973).
  • Rendendo quasi automatica la dispensa dal celibato per i preti dimessi dallo stato clericale, avendovi essi rinunciato, con l’intenzione in sé buona ch’essi non restino nel peccato ma provocando di conseguenza come effetto, eminentemente lassista, un’emorragia verso la mondanizzazione (norme del 1971). Il tentativo di Giovanni Paolo II di rendere questa dispensa più rara (norme del 1980) è d’altronde fallita.

Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno pubblicato bellissimi testi per esaltare il sacerdozio ed il celibato (Esortazione Pastores dabo vobis del 25 marzo 1992), ma papa Wojtyla ed il suo successore non hanno nemmeno preso in considerazione l’idea di fare marcia indietro sul fatto che l’altare fosse ormai circondato da attori liturgici laici, uomini e donne, lettori e lettrici, ministranti uomini e donne o ministri straordinari della comunione.

Quanto a Francesco, infine, egli ha ampliato le misure precedenti:

  • Approvando il documento finale dell’assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per l’Amazzonia, che propone, in assenza di preti nelle comunità, che il vescovo possa conferire, per un periodo determinato, l’esercizio della responsabilità pastorale ad un laico a turno (n. 96). In merito, l’esortazione Querida Amazonia del 2 febbraio 2020 ha stabilito che i responsabili laici dotati d’autorità possano presiedere alla vita delle comunità, specialmente per render concreti i diversi carismi laici, al fine «di permettere lo sviluppo di una cultura ecclesiale propria, marcatamente laica» (n. 94 – sottolineato nel testo).
  • pubblicando il motu proprio Spiritus Domini dell’11 gennaio 2021, che ha modificato il canone 230 §1 e permesso che i ministeri del lettorato e dell’accolitato potessero  essere conferiti alle donne, in più evidentemente laiche, se così si può dire (decisione ch’era d’altronde di puro principio, visto ch’esse ne esercitavano già le funzioni).

Le contraddizioni di una sinodalità ideologica

Non è tuttavia contraddittorio che si tenga tanto a far riconoscere la sinodalità attraverso testi ufficiali da parte del potere romano centrale? Perché le Chiese locali o le comunità territoriali non decidono esse stesse, da sole, di porre in essere (di porre maggiormente in essere) questa «cultura ecclesiale propria, marcatamente laica»? Perché questa «pluriministerialità» non emana dall’ambiente dei cristiani laici, in funzione dei bisogni delle comunità e dei carismi dei loro membri?

In realtà, nessuno immagina che la sinodalità, vita della Chiesa alla base e dalla base, venga istituita (o accresciuta) se non per decreti provenienti dall’alto! Di fatto, la centralizzazione tridentina, posta al servizio, dopo il Vaticano II, di un contenuto dottrinale anti-tridentino, non è mai stata tanto assoluta, con un sistema ecclesiastico bloccato all’estremo, con vescovi-prefetti, un papa autoritario, una Curia militante, assemblee sinodali ed episcopali, i cui membri si autocensurano con notevole efficienza, il tutto al servizio di una campana di vetro ideologica.

A meno che la salvezza non venga proprio dalla sinodalità, da una vera sinodalità, intesa come quella di una Chiesa, in cui il papa, i vescovi, i sacerdoti, i fedeli esercitino in maniera responsabile, all’interno di un ordine reale, il servizio relativo alla trasmissione del Buon Deposito e della sua diffusione mediante la missione. In breve, per dirla tutta, ci si augura l’avvento di una sinodalità tradizionale, che farebbe crollare l’imposizione della sinodalità ideologica. Ne avevamo parlato nel nostro editoriale sul n. 20 di Res Novæ del giugno 2020 (https://www.resnovae.fr/uno-scisma-dovuto-allautorita-dimissionaria/) circa la necessità dell’avvio di crisi salutari, di crisi cattoliche, di atti liberatori, dove vescovi, preti, fedeli si rendano capaci di fare il bene della Chiesa.

don Claude Barthe


[1] Si veda una versione cattolica della teologia della morte di Dio in Christian Duquoc, Dieu différent [Dio differente], Cerf, 1977: il Dio che si rivela in Gesù Cristo è un Dio fragile e morente, un «Dio differente» da quello della ragione ed anche dal Dio dell’Antico Testamento.
[2] « La théologie de la vocation aux ministères ordonnés. Vocation ou appel de l’Église » [«La teologia della vocazione ai ministeri ordinati. Vocazione o chiamata della Chiesa»], La Vie spirituelle, dicembre 1998, pp. 621-640; « Ordonner des pasteurs. Plaidoyer pour le retour à l’équilibre traditionnel des énoncés doctrinaux relatifs à l’ordination » [«Ordinare i pastori. Un appello per il ritorno al tradizionale equilibrio delle dichiarazioni dottrinali relative all’ordinazione»], Recherches de Science religieuse, aprile 2021, pp. 219-238.
[3] Joseph Doré e Maurice Vidal (sotto la direzione di), Des ministres pour l’Église [Sui ministri per la Chiesa], Cerf, 2001; Céline Béraud, Prêtres, diacres, laïcs. Révolution silencieuse dans le catholicisme français [Preti, diaconi, laici. Rivoluzione silenziosa nel cattolicesimo francese], PUF, 2007.
[4] [«L’avvenire dei ministeri nella Chiesa cattolica»], Études, luglio 1973, pp. 129-141.
[5] Urgences pastorales. Comprendre, partager, réformer [Urgenze pastorali. Comprendere, condividere, riformare], Bayard, 2017.
[6] Peter Kwasniewski, Ministers of Christ: Recovering the Roles of Clergy and Laity in an Age of Confusion [Ministri di Cristo: Recuperare i Ruoli del Clero e dei Laici in un’Epoca di Confusione],Sophia Institute Press, 2021.